1961 - Porto Venere la piccola Gibilterra della storia medioevale

 

      

        A chi approda al golfo della Spezia costeggiando la Riviera di Levante, non può sfuggire il carattere diverso che assume il litorale non appena superato il roccioso isolotto col quale termina praticamente l’industre regione delle Cinque Terre; detto il Ferale, a ricordo della morte trovatavi in servizio, precipitando dalla vetta, dal tenente di vascello Garavoglia, un valente idrografo che compieva lavori geodetici per conto del grande Magnaghi, fondatore della nuova scuola idrografica italiana.
        D’un subito, il paesaggio si fa più orrido, con strapiombi in calcare dolomitico, bianco e nero, venato del prezioso «portoro».
        Dicesi che subito dopo il 1800 Napoleone I, ormai dominatore dell’intera Liguria, portatosi a cavallo sul più alto di quei monti, formanti da ovest un baluardo di roccia al Golfo sottostante, decidesse all’istante la creazione del grande arsenale fortificato dell’Italia, a suo modo unificata, «che sarà potenza marittima, o non sarà» secondo la nota asserzione a lui stesso attribuita...
        Prima del Gran Corso però, i Romani, eppoi i Genovesi, avevano intravvisto, la stessa funzione di base navale nella zona più foranea del magnifico Golfo, a Portus Veneris, oggi Porto Venere, il cui nome comparisce nella storia per la prima volta nel 205 a.C. a motivo dello scempio fattone da Annone cartaginese.
        Quando Genova, dopo la mirabile sua rinascita marittima intorno all’anno 1000, che le permise di concorrere alla cacciata degli Arabi dal Tirreno ed alle operazioni navali della Prima Crociata, volse lo sguardo alle cose di Liguria e del suo mare, alla Compagna, che l’aveva eretta a libero Comune, apparve indispensabile stabilire una base di manovra avanzata a Porto Venere, nel duplice intento di fronteggiare le ambizioni espansioniste di Pisa in Corsica e Sardegna, dove Genova aveva stabilito fondachi ed interessi commerciali.
        Fra marinai è facile intendersi. Così i Signori di Vezzano Magra, noti per le loro navigazioni tirreniche, che detenevano l’Oppidum Portus Veneris non ebbero difficoltà a contrattarne la cessione, insieme alle isole prospicienti, ai Consoli della Compagna genovese.
        Era il 1113 e tutta l’attività degli esperti si riversò con impeto fèbbrile, ad erigere quella che, come una lapide ricorda, fu chiamata ufficialmente Colonia Ianuensis e tale restò fino alla caduta della Repubblica nel 1799. Com’era nell’usanza dei coloni genovesi, vi fu costruito un nuovo borgo sullo stile dei vecchi quartieri della Superba: Zena ciù ûn carruggio! era fino a qualche anno fa il pittoresco intèrcalare dei portoveneresi per affermare le loro origini genovesi…
        Su questa piccola Gibilterra in formazione, in territorio lunigianese, si era abbattuta nel 1119 l’ira ammonitrice della potenza navale pisana (una Pearl Harbour del tempo!) e ciò indusse i consoli della Repubblica a rafforzare la vecchia cinta di mura ed a costruirne una nuova intorno al nuovissimo borgo. Si legge negli annali del Caffaro che ciò fu completato negli anni 1160 e 1161. Verosimilmente, il primo annalista di Genova medioevale, che fu otto volte console della Compagna, commerciante, ammiraglio conquistatore delle Baleari e di Almeria, crociato in Terrasanta e diplomatico insigne, dovette ammirare de visu Porto Venere e le sue fortificazioni, posto che così ne scrisse: «erano di così salda imponenza, che di poi, al giudizio di quanti per quei luoghi passassero, l’aspetto di quel nuovo arnese togliea loro ogni altro pensiero. Cagion di contento ad amici e di terror a nemici pur ad ascoltarlo».
        A distanza di otto secoli, Porto Venere ha la prerogativa di conservare, pressoché intatta, la cinta delle sue mura genovesi e la vecchia porta di accesso al borgo del 1113. Assai ben conservato il carruggio principale; con i carruggetti dove si scorgono tuttora i resti delle case patrizie genovesi distrutte dai molti assalti subiti dalla piazzaforte nel corso della sua storia, ma specialmente dal grande incendio del 1340.
        Ancora salda e massiccia, sulla sua base di marmo portòro, la barriera delle case-fortezza, sul fronte a mare che, insieme alle mura, resero in ogni occasione imprendibile la base genovese e la darsena in essa racchiusa.
        Orbene, tutto ciò non dovrà scomparire, come è scomparso o scomparirà a Genova per esigenze di ordine superiore che a Porto Venere non avranno ragione di essere, ma soprattutto si dovrebbe cessare dal sofisticarlo con quelle contaminazioni edilizie che hanno fatto scempio di gran parte  del patrimonio che la natura e la storia hanno consegnato a noi Liguri per tramandare il culto delle nostre storiche memorie.

 
     
     

  

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