Paesaggi e tradizioni. La leggenda di Punta Monaca

 

      

       Non ho mai capito per quale strano giro di eventi quella che i portoveneresi hanno sempre conosciuto come « Punta della Monaca » e « a Munega », nel dialetto locale, la zona corrispondente nel promontorio del Cavo, sia poi divenuta nelle carte nautiche « Punta del Frate ». Che vi sia stato equivoco nei cartografi compilatori, si arguisce anche dal fatto che nelle mappe catastali della zona, ora attraversata dalla nuova strada che ne fa uno dei punti panoramici più belli del Gofo, è chiaramente indicata « località Monaca ».
       Circa l’origine del nome lo ho sempre sentito attribuire all’esistenza di un antico convento di monache (non so di quale ordine), il cui ricordo è collegato ad una pietosa leggenda per vero non molto diffusa, della quale non ho mai trovato traccia nei molti scritti sulla regione, ma che ricordo di avere udito narrare nei miei anni giovanili, in occasione di gite in barca lungo la punta pittoresca le cui scogliere, alternate con apriche spiaggette, sono miracolosamente scampate alle moderne devastazioni; o per terra, con meta alla deliziosa e profumata frescura dei suoi boschi litoranei, sui quali la furia distruttrice degli uomini si è fatta maggiormente sentire.
       Del suddetto monastero esistono tuttora poche macerie, confuse con i molti sassi dei muri a secco di millenari uliveti, franati e invasi dal sottobosco, ed una porticina a mare, alla quale si accede da un residuo di scalinata ricavata sulle scogliere fiancheggianti una grotta, mostra chiaramente che anche per detta via si poteva giungere, mare permettendolo, al cenobio.
       Ciò, del resto, si osserva in modo ancora più evidente presso le gloriose vestigia del monastero di San Venerio all’isola del Tino.
       Narra dunque la leggenda che intorno al IX secolo d.C. le pendici del Cavo erano state assegnate per buona parte in proprietà (o in concessione « beneficiaria » che non era ancora il feudo, affermatosi successivamente), a una famiglia lunense, discendente per via diretta da quei 2 mila quiriti che avevano costituito il primo nucleo demografico della colonia romana di Luni, all’atto della sua fondazione.
       Correndo l’anno 86O dell’era di cui sopra, la famiglia composta per vero, dei nobili genitori e di un’unica figlia, si trovava raccolta nella villa ivi costruita, sul limitare delle scogliere per trascorrervi le feste natalizie. E qui era stata raggiunta dal fidanzato che a Luni occupava al pari del futuro suocero una posizione assai cospicua nel governo dell’industre, marmorea cittadina alla foce del Magra.
       Per essa, già in quel tempo, non correvano tempi facili, in quanto la «splendida nostra civitas lunensis », come definita in famosa epigrafe, era contesa fra i suoi gloriosi vescovi (Luni aveva dato un papa alla Chiesa) e i Marchesi di Lucca. Inoltre era stata devastata nel 41 dal re longobardo Rotari e nell’849 aveva subito la prima delle incursioni saracene che ne avrebbero determinato un secolo e mezzo dopo la fine e lo abbandono.
       Narra la leggenda che verso il tramonto di una delle corte giornate precedenti il Santo Natale, trovandosi riunita la famiglia anzidetta nella terrazza della villa sul mare, intenta a godersi lo spettacolo e la pace di una fine giornata dicembrina, con aria tersa e quasi primaverile, calma piatta di mare, quali ricorrono talvolta nel nostro Golfo anche nel pieno della stagione invernale, la sua attenzione fu di un subito colpita dalla grandiosità di una scena inusitata: una intera flotta composta da un centinaio di navi a remi del tempo, era apparsa quasi simultaneamente al di fuori della prospiciente punta della Palmaria (oggi Punta Scuoia), dirigendo in perfetta formazione verso la baia di Porto Venere.
       Erano navi di un tipo mai visto: basse di bordo, una sola fila di remi, un albero al centro con grande vela quadra, la prua e la poppa uguali ed altissime, terminanti con strane polene a foggia di dragone: lungo i due bordi erano disposti in ordine impeccabile gli scudi da combattimento, che davano riflessi di fiamma sotto i raggi del sole al tramonto.
       Si trattava, in breve della temuta flotta dei « draken » (dragoni) vichinghi del re Hasting, barbarico condottiero di barbariche orde normanne che si sapeva entrato in Mediterraneo, seminando di stragi e rovine le coste dell’Iberia ed ultimamente le isole Baleari. Ora aveva per meta Roma, ma i venti lo avevano condotto a Porto Venere, e, secondo il compianto archeologo del Golfo Ubaldo Formentini, tale approdo sarebbe registrato, in una glossa antichissima che tratta delle imprese dei Normanni conservata nel monastero di Roven. Non ci volle molto a comprendere da parte dei due insigni reggitori lunènsi presenti al Cavo, che l’arrivo nelle acque di Porto Venere della suddetta flotta di regali ciurmatari costituiva un pericolo mortale per la stessa Luni. Essi la raggiunsero nella stessa notte, facendo forza di remi e di vele nella piccola feluca rimasta a loro disposizione nel seno dell’Olivo. Dato l’allarme, la ben munita città, che disponeva ancora delle sue mura, fu messa in stato di resistenza.
       Qui la leggenda di cui stiamo trattando si confonde con quella assai nota del clamoroso tradimento operato dal re Hastìng contro i bravi difensori di Luni. Giunto a Luni con la flotta proprio nel giorno dì Natale, e viste chiuse e ben guardate le porte, era ricorso a un macabro strattagemma che per brevità non descriviamo, per prendere la città con la frode, mettendola a ferro e a fuoco, dopodiché aveva fatto vela per il mezzogiorno d’Italia. I due bravi lunensi che per prudenza avevano lasciato le loro donne nella villa del Cavo di Porto Venere, erano stati trucidati dai feroci Normanni, insieme agli altri maggiorenti della città, nell’interno della grande cattedrale di Santa Maria (derivata dalla basilica pagana di cui restano i ruderi) in cui si era rinnovato con grande efferatezza l’antico episodio di Troia.
       Alle due donne superstiti, non restò, dice la leggenda, che aggrapparsi naufraghe della vita, nel mare burrascoso dell’epoca, all’unica risorsa della « buona terra » avita. Animate da profondo senso religioso e di rinunzia, dedicarono la loro travagliata esistenza al benessere materiale e spirituale della piccola comunità agricola del Cavo, ed è fama che insieme a poche altre compagne fondassero nella stessa villa un « ritiro » di monache, il quale, cosa strana, sarebbe sfuggito alla temuta oppressione saracena che aveva reso impossibile nei secoli nono e decimo della nostra era, la vita negli altri famosi cenobi di Porto Venere e delle sue isole. O forse le pie donne lo avevano abbandonato, come tanti altri della costa, durante la tormenta, per esser poi riportato alla sua funzione originale al ricostituirsi della Marca Obertenga intorno all’anno 1000, che segna la rinascita della vita religiosa nel « castrum vetus» di San Pietro, a San Giovanni della Palmaria e all’isola del Tino (1050).

 
     
     

  

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