Spunti e riflessioni sul Patrono del Golfo

 

      

       Non sappiamo come e quando si sia formata la leggenda di Venerio santo « marinaio » e, per giunta, creatore della vela latina. Il Lamorati, che fu nel 600 il più accurato fra i suoi agiografi, non dà al santo portovenerese tale attributo; ma forse esagera quando ci presenta un Venerio anacoreta « fuggito dal mondo per cercare Dio » che contende bacche ed altri cibi vegetali agli animali del bosco... Non era più pratico cercare il pur limitato nutrimento nella fauna ittica che (allora più di oggi) doveva abbondare nelle acque del solitario e suggestivo isolotto?
       Comunque, San Venerio fu certamente pescatore (come gli altri pochi cenobiti che servivano Dio nelle piccole « ecclesie » delle quali restano le preziose fondamenta (e al Tinetto qualcosa di più) e da pescatore a marinaio è breve il passo. Venerio doveva servirsi della vela già nota ai romani ed ai bizantini (quale ausiliaria dei remi!) nelle sue frequenti relazioni con i vescovi di Luni, che gli affidavano missioni assai importanti. Non bisogna dimenticare ch’egli era un capo, uomo di dottrina, oltreché prescelto da Dio per aprire nel mistero del soprannaturale quegli spiragli che sono i miracoli... e non il selvatico anacoreta costruito dalla leggenda nella fantasia popolare intorno alla sua figura, cosi poco documentata.
       Tornando alla vela latina — oggi scomparsa quasi del tutto dai nostri mari — vi sarebbe nella sua denominazione un errore che qualche trattatista ha cercato di correggere. Una vela latina (cioè romana) del noto tipo triangolare inferita su antenna inclinata verso prua e con scotta libera, capace di « stringere il vento » non è mai stata impiegata sulle navi romane e nemmeno in quelle greche. Si apprende, infatti, dalle figurazioni a noi pervenute che dette navi (triremi, eccetera) possedevano, per lo più, un albero al centro con una vela quadra, utilizzata soltanto col vento in poppa. Quella che è chiamata impropriamente « vela latina » ed è, secondo alcuni, una deformazione del termine marinaresco « vela alla trina » sarebbe stata introdotta nel Mediterraneo dagli arabi, che la usano tuttora largamente in Mar Rosso ed in Oceano Indiano. Furono, con tutta probabilità, i bizantini, la cui marineria si sostituì a quella romana nel Mare Nostrum, ad introdurre tale tipo di vela nel Tirreno. Nulla di più facile che Venerio sia stato il primo ad usarla a Portus Veneris, dove il buon vento non manca (anche se oggi alla sua forza naturale vi si preferisce quella del motore).
       Ma San Venerio ha avuto altri meriti nello stesso campo marinaresco, quale quello di accendere fuochi (forse sulla sommità del Tinetto), nei giorni di tempesta, per tener lontani i naviganti dalle pericolose scogliere delle isole. Certamente tredici secoli fa Tinetto e Tino formavano un’unica isola. Per lo stesso scopo dieci secoli dopo la repubblica genovese innalzava sopra gli strapiombi del Tino il torrione-faro (alimentato ad olio) la cui massiccia struttura trovasi tuttora incorporata nella mole del grande faro che vi ha eretto il governo italiano dopo la costituzione della piazzaforte.
       L’annuale rievocazione dì San Venerio santo del mio paese e patrono del golfo, oltreché dei fanalisti, mi ha suggerito questi spunti. In un certo senso vorrei avvicinare la sua figura a quella, altrettanto leggendaria, di San Colombano, un monaco delle isole scozzesi al quale la tradizione cristiana attribuisce prodigi marinareschi di una certa portata.
       Dal lato archeologico, fu idea felice quella di dare un assetto ordinato e decoroso a quel mucchio di macerie che fino a pochi anni fa costituivano il più celebre monastero della regione, costruito presso la tomba del Santo nell’anno 1050. Ed è merito della Marina Militare l’avervi fatto buona guardia, evitando così che le devastazioni dei barbari moderni operate alla Palmaria fossero estese al gioiello pittorico del Tyrus Major.
       Non dimentichiamo però che anche lo scoglio desolato del Tino Minore (il Tinetto) è detentore (insieme al tempio di San Pietro a Porto Venere ed alla Pieve di San Venerio di Migliarina) delle antichità cristiane più arcaiche del golfo. Esse furono meglio identificate e portate alla luce del sole dalla Soprintendenza ai Monumenti intorno al 1950, ed è doveroso impedirne la manomissione finché si è in tempo.
       Un popolo cosciente della propria storia (anche se presso di noi non è così monolitica e fortunata come in altri Paesi) ha il dovere di preservare quei resti del suo passato che costituiscono un po’ i suoi « quadri di famiglia ». E ciò tanto più nel caso delle antichità del nostro golfo, tutte dotate dì forte attrattiva pittorica e turistica.

 
     
     

  

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