1959 - Fantasie estive alla Palmaria - Il vecchio ulivo racconta

 

       Siamo entrambi - io ed il mio amico d’ufficio - dei « patiti » di Portovenere e, per giunta, dei « sub » inveterati. Il mare del pittorico sorgitore ci piace, soprattutto, nel giorni feriali, quando le sue acque cristalline sono meno sconvolte dai numerosi galleggianti a motore, i veloci motoscafi di lusso, in particolare, che rastrellano la baia ad andature da campionato, in barba alle « grida » delle autorità marittime... Ci piace, allora, immergerci nel fresco mattino, dalla lingua della Secca, all’isola Palmaria, ed iniziare, a velocità di medusa, la nostra consueta scorribanda lungo i diafani anfratti delle scogliere e girare la punta a sperone dell’isola, spingendoci, quando il mare e l’autorespiratore ce lo permettono, fino ai magici strapiombi della Grotta Azzurra, prima che vi arrivi la ressa dei turisti, con le rumorose barche a motore dei ciceroni paesani. Poi la beata siesta pomeridiana all’aria aperta, prima di riprendere la via della città.
       Siamo usi a farla nel recesso ombroso di un uliveto centenario mezzo abbandonato, nella fresca valletta di San Giovanni, già Villa Pieri-Nerli, ai margini di un invadente bosco di pini che ci manda ondate di profumi resinosi e di tante « erbe buone », ma che, incorreggibili fumatori, teniamo a rispettosa distanza. Sappiamo infatti che, in tempo di solleone, bivaccare o dormire sugli aghi secchi e sull’intrico di arbusti di un sottobosco è come abbandonarsi a Morfeo sul tetto di una polveriera...
       Quel giorno di luglio eravamo rientrati all’agreste base stanchi più del consueto: il tempo accennava a cambiare ed una forte corrente aveva reso molesta la nostra escursione subacquea e, di più, la preda insignificante. A Portovenere il pesce si è fatto eremita. Dal rumore fugge! Il vecchio ulivo centenario, dal gran tronco scavato alla base e le radici nodose ben aggrappate al terreno, non più dissodato da anni, e gli altri, più smilzi, che gli facevano corona non ci avevano risparmiato la loro ombra benefica. Avevamo fatto onore alla colazione « al sacco » e, più ancora, all’autentico Manaròla delle nostre borracce, rifornito ad una delle trattorie della spiaggia di Portovenere. Ben presto era giunto il sonno, conciliato dal canto strascicato delle cicale, ed eravamo entrati nei regni fantastici dell’irreale e del subcosciente...
       E l’ulivo centenario aveva cominciato a parlare. Raccontava al gruppo degli ulivi striminziti che gli stavano intorno quanto aveva visto nella sua lunga esistenza e quanto gli risultava dalla tradizione tramandata dagli avi. Erano state le navi dei Focesi e dei Fenici a far conoscere il gustoso e balsamico olio d’oliva alle popolazioni della regione, insieme ai primi arnesi in ferro prodotti dai Sumeri per lavorare la terra. Poi altre navi, quelle dei Romani, avevano portato dalla Grecia i primi virgulti della preziosa pianta. La coltivazione degli ulivi s’era rapidamente estesa, da Palmaria a Ventimiglia ma la formazione degli uliveti, dei quali rimangono i gloriosi avanzi, era stato lavoro arduo e di secoli. Nel Medio Evo la Repubblica di Genova, nonostante le continue guerre e la cura particolare rivolta alla navigazione ed ai commerci, aveva favorito in ogni modo l’estendersi degli uliveti e dei vigneti nelle due Riviere. L’isola Palmaria era un modello del genere: in alto la boscaglia, sui pendii foranei i vigneti, sul versante della baia il gran manto grigioverde degli ulivi.
       L’isola era popolata di casolari e non vi mancavano le sorgenti di fresca acqua potabile. San Giovanni dava il nome ad un piccolo aggruppamento di case, a ridosso della chiesetta omonima, sulla riva del mare. Più volte i Pisani, durante le guerre fratricide, l’avevano assalito, facendo scempio delle coltivazioni. Con tutto ciò, l’epoca d’oro per l’isola s’era protratta fino alla prima metà del secolo XIX. Poi — aveva affermato amaramente l’albero venerando  — un più ferreo volger di cose, di cui la grande famiglia degli ulivi non sapeva rendersi ragione, sembrava aver cambiato totalmente la mentalità degli uomini. Grandi lacerazioni erano state prodottole con mezzi inusitati, sui fianchi dell’enorme cetaceo di roccia posto a guardia del Golfo e i dossi verdeggianti dell’isola s’erano ricoperti di diabolici apportatori di morte e di distruzione. Seguì il racconto di avvenimenti tristi ed a noi troppo noti, per concludere che tutto era andato a catafascio, che le colossali opere difensive ed offensive erano ora un mucchio di rovine e che tali erano in parte, o minacciavano di divenire, le millenarie coltivazioni dell’isola: i terreni non più dissodati e concimati (magari con l’alga delle spiagge utilizzata dai vecchi coloni), i muretti a macerie di sostegno in via di disfacimento e, temibile soprattutto, la marcia invadente del bosco, che stringe gli uliveti nella sua morsa profumata ed inesorabile, per soffocarli e soppiantarli, ed essere preda a sua volta del fuoco distruttore... che ormai ha messo stanza nella Grande Dimenticata del Golfo!
       Così l’ulivo centenario nella sua parola pacata e dolorante, che i fumi del «Cinque Terre » avevano impresso nel registratore della mia fantasia. Svegliandomi non sentii altro suono che la nenia cadenzata delle cicale, clamante sulle ali del maestrale, come già il racconto dell’ulivo venerando... A quando un Comitato Pro Insulae Palmariae, come quello già in atto per il Tino?

 
     
     

  

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