1965 - Il Tino verdeggiante sentinella del Golfo

 

       A distanza di più di 1300 anni, San Venerio ritorna alla sua isola verdeggiante sentinella — oggi che il verde si va rarefacendo — all’entrata del golfo. Vi ritorna, in forza di una consuetudine che data solo da pochi anni, ma che sembra ormai entrata ed accolta con simpatia nella nostra terra, anche perché la suggestiva cerimonia che l’accompagna, è sempre stata allietata e resa fulgida dal bel tempo. Una buona occasione per accedere (senza autorizzazione) all’isoletta profumata di resine di erbe buone, grazie alla pineta marittima ancora intatta; una sosta di spiritualità, fra sacre mura riattate e rese accessibili, a chiusura dell’evasione estiva che tutti hanno chiesto, più o meno largamente al mare ed alle varie risorse e bellezze del golfo.
       Nella storia della terra lunigianese, il Tino ha sempre avuto funzione di faro luminoso, intendiamo nel senso etico e spirituale anche all’infuori, cioè di quella conferitagli dagli uomini per la sicurezza dei naviganti, che la leggenda fa addirittura risalire al monaco cenobita Venerio. Ma questi fu anche luce spirituale che attirò nel suo raggio miseri e potenti, fra gli altri un imperatore bizantino, Foca, che si dice lo visitasse nel suo eremitaggio fra il 602 e il 609. Spentasi la luce di Venerio (il 13 settembre del 630) l’intera regione marittima — ma anche le due riviere, le grandi isole e l’intera costa tirrenica — piombano, di li a poco, in quell’oscurità che gli storici altomedioevali chiamano i « secoli bui ».
       La talassocrazia degli arabi s’era estesa all’intero Mediterraneo occidentale; le due riviere soggette per più di due secoli alla « oppressio saracenorum », erano state devastate, gli approcci marittimi spopolati. La marmorea Luni, Genova stessa aveva avuto ferite quasi mortali e la prima era stata cancellata del tutto dal novero dei centri romani proprio intorno all’anno Mille, quando l’oppressione araba stava per essere debellata.il Tino solitario e intonso così come appare in questa rara antica fotografia
       Ed ecco accendersi sul Tino una nuova luce. Nel 1050 circa i signori di Vezzano, padroni di Porto Venere costruiscono un convento, con annessa « ecclesia » sulla pittorica balza nella quale sorgeva la cappella, rimasta vuota dei resti di Venerio, traslati a Reggio Emilia nell’anno 808. Il monastero diviene in pochi anni il più ricco e famoso della regione ciò che induce la santa sede a mantenerlo lungamente sotto la sua diretta giurisdizione. E’ affidato al monaci benedettini, ai quali succedono gli olivetani nel 1432, con diritto alle coltivazioni delle terre della Palmaria, da essi portate a gran rendimento, come resulta dai documenti dell’epoca. La luce spirituale emanante dall’isolotto è tale che le grandi famiglie della Lunigiana lo designano a sede dei loro resti mortali. E’ difficile rendersi conto, a tanta distanza di tempo delle ragioni prime di un così grande prestigio...
       Comunque, il Tino resse finché la potenza navale e l’influenza politica della repubblica genovese furono tali da garantire la sicurezza nei suoi stessi mari di casa. Verosimilmente ciò non fu più quando (nel 1470) la « famiglia del Tino » fu costretta a ritirarsi nel monastero delle Grazie, lasciando al Tino solo alcuni fratelli guardiani. Sul mare si succedono nuovi nemici di Genova: veneziani, turchi, aragonesi, eccetera lo stesso golfo è sotto continua minaccia e Porto Venere va gradualmente perdendo la funzione di scudo così ben esercitata nel Medio Evo. Comincia l’epoca delle grandi guerre. Spenta nuovamente la luce del Tino, del famoso convento resta un ammasso di macerie.
       Cosi lo videro i coetanei Giovanni Cappellini e Agostino Fossati nelle loro escursioni giovanili intorno al 1850 e di quest’ultimo è divenuta preziosa una tela che ritrae le rovine del monastero sullo sfondo dell’ancora intatto paesaggio della Palmaria. Così lo aveva visto ed eternato in pochi incisivi versi il poeta tedesco Augusto von Piaten nel 1828 nella sua lirica « Invito all’isola Palmaria ».
       La seconda guerra mondiale accumula sulle due isole più vistose macerie delle distrutte fortificazioni, e nell’euforia che succede ai lunghi anni del tormento comincia una nuova devastazione: l’incendio dei boschi che in breve cambia i connotati alla Palmaria. Pochi idealisti osano andare contro corrente e confortati dall’aiuto della marina militare e della sovrintendenza ai monumenti gettano le basi di una istituzione intesa a preservare le bellezze pittoriche e a rivalorizzare, i resti archeologici nell’isolotto del Santo di Porto Venere. Il resto è storia nota. A nostro parere l’esperimento - se tale possiamo chiamarlo — è perfettamente riuscito e per dover d’equità segnaliamo con l’opera della « Pro Insula Tyro » quella fiancheggiatrice del comune di Porto Venere, nonchè della locale parrocchia, che fin dall’inizio si è sempre prodigata (specie nella persona dell’attuale arciprete don Beretta) per la buona riuscita di una cerimonia che la riguarda molto da vicina.
       Il Tino è salvo; ma coloro (e non sono pochi) che guardano con interesse — non scevro di giustificata apprensione — al futuro di Porto Venere, vedono ancora insoluto e grave di incognite il problema della Palmaria, che del vetusto e già industre paese fu in ogni tempo il polmone che le dava il più sicuro respiro economico.

 
     
     

  

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