Echi di un'estate portovenerese sui bordi intorno alla Palmaria

 

       Correndo l’anno 1242 le forze di terra e di mare del vicario imperiale di Federico II, che aveva molte ragioni per castigare Genova, conquistato il castello di Lerici, muovono baldanzose all’assalto della rocca e base navale di Portovenere, dando occasione ai suoi abitanti (viri providi et fideles homines Portus Veneris) di segnare nella giornata del 20 luglio, con la loro indomita resistenza, la più bella pagina della loro istoria. La ricorda una lapide ingiallita sulla porta del borgo e l’esalta nel suo poemetto in versi latini un poeta e notaro che verosimilmente vi aveva assistito, Ursone da Vernazza (o da Sigesta), al quale fu attribuito il merito di aver fatto risorgere le lettere latine dalla rozzezza e dalla barbarie in cui erano cadute, ancora prima dell’opera del Petrarca ed altri del suo tempo. Fallito il tentativo, la furia degli assalitori si abbatté sulle campagne dell’ubertoso territorio, e specialmente delle isole. Portovenere era sempre la prima a subire le rappresaglie e le ire dei nemici di Genova, facendone di solito le spese la Palmaria, col vicino Tyrus Maior (oggi Tino): tagli d’intere vigne, scempio di oliveti, incendi di boschi e di case. La prima scorreria, dei Pisani, sull’isola si registra nel 1162 e la storia ne segnala, dopo di quella, un’altra diecina, fino alla calata dei Catalani, nel 1331, che fu una delle più crudeli. Gli stessi Pisani, nel 1282 — due anni prima della fatale Meloria — attaccano con 32 galee condotte da Ginicello de Sismondi il borgo di San Giovanni (del quale non resta che il nome, nella placida caletta del Saladero, già villa Pieri-Nerli), lo devastano, insieme alla chiesa, dalla quale asportano come trofeo le campane. L’esistenza di un tale borgo, citato dagli Annalisti, indica che l’isola era qualcosa di più di un semplice baluardo naturale della base avanzata di Portovenere, e del resto lo stesso Ursone ne descrive le bellezze nel citato poemetto, definendola «cara a Pallade, a Bacco ed a Pomona», ed attardandosi a descrivere l’opera insensata della Pisana Squadra che « contra i campi infierisce, arde, s’affanna - Impazza, infuria, e col tagliente ferro - Non paga di ferir, tronchi e pedali - Divelle e sterpa e sbarba ogni virgulto ecc. ecc. ». Delle vicende dell’isola non si hanno più notizie nel basso Medio Evo, ed è da ritenersi che, salvo le sporadiche incursioni barbaresche, che non ebbero più carattere di distruzioni sistematiche delle risorse agricole locali, come ai tempi delle lotte fratricide, essa abbia goduto anni di una relativa tranquillità, tale da permetterne la migliore valorizzazione agli effetti dell’economia portovenerina. Si spiega così quella minuziosa suddivisione in proprietà boschive, ma in prevalenza coltivate (vigneti, uliveti, frutteti), che risultano dai catasti, o dai documenti notarili di fine 1700 e prima metà del secolo XIX ed oltre, questi ultimi ancora conservati fra le carte ingiallite di antiche famiglie benestanti del comune.
 
La nuova realtà
       Sono scomparsi solo da pochi anni i vecchi che ricordavano l’approdo alle sicure calanche palmarine dei vinaccieri — un tipo di veliero da cabotaggio, ormai scomparso — per caricarvi i vini, che non avevano nulla da invidiare a quelli rinomati delle Cinque Terre. Quantum mutatus... esclamerebbe addolorato anche il buon Ursone, se gli fosse concesso di rivedere i luoghi cantati nei suoi versi! Allontanati d’imperio, già nell’epoca umbertina, i proprietari ed i contadini dei migliori appezzamenti soggetti a servitù militare, il bosco se n’è impadronito sovrano; ma ora, disotto alle ceneri dei recenti incendi, affiorano nuovamente i muretti a maceria delle antiche piane coltivate: monumenti rispettabili, dal Varo alla Magra, del secolare, paziente lavoro dei Liguri, volto a render produttivo un territorio per buona parte scosceso ed impervio. E’ possibile oggi una rivalorizzazione agricola totale della Palmaria. Molti pensano che anche con un minor irrigidimento delle Autorità militari, essendo cambiata l’economia locale, non vi sia più da sperare, né alla Palmaria, né sulla prospiciente terraferma in un ritorno alle primitive condizioni, quando gli anziani, le donne ed i fanciulli accudivano alle terre, mentre i giovani navigavano od esercitavano un mestiere, e d’altronde il disamore per le coltivazioni è ormai una caratteristica di queste plaghe. Spiace allora pensare che perdurando queste condizioni, e ponendosi intralci ai pochi volenterosi che vorrebbero riscattare qualcuno dei magnifici uliveti ancora immuni dall’insidia del bosco (quello ad esempio del vallone del Pozzallo, che fu uno dei più produttivi dell’isola), la bella balena addormentata, flagellata dai flutti, lavata dalle piogge torrenziali, che non hanno più il freno dei boschi (nei quali gli speculatori stanno svellendo anche le radici — i cosiddetti zocchi — risparmiati dal fuoco), con le sue fonti già da ora inacidite, sia ridotta con gli anni ad un enorme roccione calcareo, senz’altra forma di vita all’infuori di quella derivante dai suoi apprestamenti difensivi.
 
Qualcosa si può fare
       Probabilmente, fra i due estremi esiste una possibile soluzione intermedia e transattiva: la valorizzazione turistica, anche limitata a zone determinate, come praticato ad esempio per le Isole Hyères, davanti a Tolone, e per le Brioni a Pola. Con ciò non s’intende di aprire incondizionatamente le vie dell’isola, della quale sarebbe assurdo negare la funzione militare, al turismo intemperante, licenzioso e spesso distruttore (vari incendi di boschi ne hanno già fatto le spese), ma alle forme più civili di esso, che già danno buon frutto sui declivi di Portovenere e particolarmente nel più favorito lato del Golfo. Ville, alberghi, stabilimenti balneari, strade, in una zona di eccezionale bellezza pittorica qual’é indubbiamente l’insenatura racchiusa dalla Palmaria, non possono che contribuire al rassetto della località, mantenendole un carattere degno delle sue tradizioni storiche, ed indirettamente al miglioramento delle condizioni e risorse economiche del paese più caratteristico del mondo, del quale l’«isola» fu uno dei due polmoni di respiro. Sogni, illusioni, parole... al maestrale... dirà il più esperto ed ammonito lettore: la Colonia Januensis del 1113 è nata sotto il segno di Marte e... nulla da fare! Al che si potrebbe obbiettare che Marte si è messo il berretto frigio e che in democrazia certe questioni vanno discusse. Tanto più che Portovenere non è più l’anacronistico paese del 1890-91, con le sue gloriose e pittoriche rovine cadenti e trascurate, senz’acqua potabile, senz’alcun comfort alberghiero, tutto chiuso nella tristezza della sua perduta prosperità. Tutti consenzienti, in alto ed in basso, per un minimo di valorizzazione delle sue caratteristiche, mentre Comune ed Ente provinciale del Turismo fanno del loro meglio, a malgrado di tante difficoltà, per dare alla località veste accogliente e decorosa, sarebbe ingiusto e fuori luogo pensare che non vi sarà un alleggerimento delle attuali proibizioni, e che tanta buona volontà e tanto lavoro potranno approdare ad un inevitabile punto morto.

 
     
     

  

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