Gino Montefinale:
Raccolta di articoli di storia, di radio, di mare

 

 

I GIAPPONESI A NAPOLI


 

Davanti a Santa Lucia, nel bel mare turchino del Golfo di Napoli, splendente e increspato dalla fresca brezza del largo, sorgono maestose all’ancora, severe nella loro tinta grigia di guerra, le due navi giapponesi, reduci dalle feste di Jamestown e sulla via del ritorno alle poetiche rive del Sole Levante. Sono il Tsukuba, grosso incrociatore corazzato, nuovissimo, costruito interamente nei cantieri nipponici, ed il Chitose, incrociatore di minor potenza e di minor tonnellaggio, una delle gloriose navi di Togo.

Una folla d’imbarcazioni circonda le due masse imponenti: sono gli allegri abitanti di Partenope, ansiosi di vedere i piccoli uomini gialli, la cui fama guerresca si è sparsa per ogni lido, ed i complicati congegni che essi hanno saputo così mirabilmente impiegare.

Anch’io, mosso dallo stesso desiderio, sono salito a bordo del più grande dei due, il Tsukuba, che batte all’albero prodiero l’insegna del vice ammiraglio Jjnin, un po’ timoroso, lo confesso, di mostrarmi indiscreto, ma d’altra parte confortato dal pensiero di non fare cosa inutile. Fa impressione il passare d’un tratto dall’allegria e dal frastuono delle vie di Napoli, ove si agita una vita multiforme, ma di sembianti a noi famigliari, all’ambiente severo e militare d’una di queste navi ove da ogni lato si è circondati da gente del tutto diversa – dà l’illusione di essere passati d’un tratto dall’Europa al Giappone: ma non è il Giappone delle case da thè e delle geishe, dei fiori e delle lanterne di carta – è un Giappone d’acciaio, tutto cinto di corazza, irto di cannoni, rumoroso di macchine, che racchiude nei suoi fianchi una forza colossale e sempre minacciosa.

        Dei piccoli marinai, dalle bianche tenute estive linde ed attillate, dai berretti piccoli all’inglese, dagli occhietti intelligenti sullo sfondo terreo dei loro visi paffuti, fanno la guardia a poppa e alle scale; altri, componenti il resto del picchetto, siedono in una panca pronti a rendere gli onori dell’etichetta navale – altri rassettano, sotto la guida dei sott’ufficiale, i ponti e le sopra strutture; altri, essendo ora di ricreazione, siedono in coperta in circolo e fumano curando diligentemente di buttare la cenere in un grosso portacenere che sta al centro; a poppa passeggia l’ufficiale di guardia, dal petto coperto di decorazioni; altri ufficiali, tutti dello stesso tipo, conversano e guardano curiosamente la ressa dei battelli sotto il bordo e sembrano divertirsi al gergo rumoroso dei barcaiuoli.

        Un piccolo ufficiale, anch’esso dagli occhietti vispi e dall’andatura grave e misurata, che parla benissimo l’inglese, mi accompagna a visitare la bella nave, mostrandone, con squisita cortesia, i minimi particolari.

        Troppo lungo sarebbe descriverli qua, ove lo spazio nol concede; dirò solo che non mancano al suo bordo tutti i meccanismi e gli strumenti più perfetti che siano stati costruiti per i diversi scopi del tempo di pace e di guerra. Dalle alte stazioni di comando, ove deve risiedere il cervello del gran mostro, alle torri colossali, alle casematte, ai ponti inferiori, fin giù ai recessi delle macchine e dei depositi delle munizioni, agli ospedali di combattimento, alle stazioni di lancio, alle dinamo, è tutta una mirabile collegazione di congegni e di strumenti che rende la trasmissione degli ordini a tutti i punti della nave quasi perfetta. I telemetri più perfezionati misurano le distanze dal nemico, i trasmettitori di ordini regolano il tiro ed indicano i bersagli, i telefoni impartiscono i concetti che lo devono informare – i telegrafi di macchina regolano la velocità della nave. L’organizzazione è perfetta, il gran mostro è pronto a spargere d’intorno distruzione e rovina al cenno dei piccoli uomini gialli.

        Essendo l’ora del riposo, la maggior parte di essi sono nei ponti inferiori alle tavole; molti giuocano a strani giuochi simili ai nostri degli scacchi e della dama; altri sono assorti nella lettura di bei volumi della biblioteca di bordo; vi è chi scrive su lunghi fogli di carta giapponese, lentamente, a caratteri complicati, una lettera in cui forse narra le sue impressioni sui paese e sui costumi del Sole Occidente – qualcuno rattoppa i suoi vestiti; sotto ad un cannone due marinai sono intenti ad esaminare un album di cartoline illustrate, raccolte durante il lungo viaggio – due sottufficiali fanno la scherma del bastone: più in la due marinai si esercitano nella lotta fra l’attenzione di una diecina di spettatori. Nell’interno di un piccolo locale, adibito a buvette, ove però non si vendono che sigarette, tabacco e qualche bevanda molto diluita, pendono dal soffitto delle variopinte lanterne di carta che rammentano la patria lontana.

        Dappertutto regna sovrano l’ordine, e la pulizia è spinta all’eccesso anche nei più reconditi luoghi della nave – qua e la, da un lembo di cortina sollevata si vede l’interno della cabina di un ufficiale o di un sottufficiale, semplice e pulita, parcamente adornata e con buon gusto di ricordi del loro bel paese, delle città visitate, delle passate e gloriose campagne di guerra.

        A chi esamina, anche superficialmente, l’ambiente di queste navi, è dato subito di apprezzare quale lodevole affiatamento riunisce equipaggi ed ufficiali e, nel contempo, quale sana disciplina, intesa nel vero senso di rispetto e di stima reciproca, li divide. Per chi ha letto qualche anno fa il rescritto imperiale sull’esercito e sull’armata nipponici, sarà facile il vedere come ne siano applicati qua a bordo fedelmente gli articoli.

        Uno di essi suonava così: “I superiori non devono mai essere altezzosi od orgogliosi verso quelli di grado inferiore e le severità della disciplina devono essere riservate per i casi eccezionali. In tutti gli altri casi i superiori devono trattare quelli sotto di essi con amorevolezza e speciale clemenza, cosicché tutti gli uomini possano essere riuniti come uno solo per il servizio del paese”.

        E’ per questo che noi vediamo, nei bassi ponti di queste navi, i piccoli ufficiali interessarsi ai giuochi, alle letture, agli esercizi ginnastici dei loro marinai, che vedono in essi non dei tiranni (come avveniva nelle navi di Rodjestwensky) ma dei padri, degli educatori e dei maestri. E come tali li amano e li rispettano all’eccesso, fedeli all’altra massima giapponese: “Tuo padre e tua madre sono come il cielo e la terra, il tuo maestro e il tuo signore come il sole e la luna”.

        In questo sta la vera potenza morale di questa giovane e gloriosa marina in cui ufficiali e gregari sono riuniti, non dalla coesione superficiale della disciplina, ma da quella ben più profonda del sentimento patriottico e dell’entusiasmo: essa ha basi così solide che non vale nessuna utopia moderna antimilitarista a minarla.

        E nel cuore dell’intelligente e colto ufficiale da cui mi congedavo e che insisteva perché io non dimenticassi che quella bella nave era completamente uscita dai cantieri del Giappone “made in Japan”, io vedevo una soddisfazione intima pel trionfo dell’industria nazionale analoga a quella che egli, che aveva visti gli orrori della guerra, aveva provato pei trionfi delle sue armi.

        Allontanandomi, sulle azzurre onde di questo incantevole golfo, guardavo ancora la bandiera sanguigna del Sole Levante che sventolava dalle aste di poppa alla fresca brezza del largo sotto a questo bel cielo d’Italia: la rivedevo fra le nebbie e le tempeste di neve del Mar Giallo, sulle poppe delle navi coperte di ghiaccio o dei cacciatorpediniere sbattuti dalle onde durante le laboriose crociere della grande guerra navale – fra i turbini di fuoco delle grandi giornate di pugna rovinosa e micidiale - sempre vincitrice, sempre adorna di meritati allori.

        Così, lasciando quegli uomini, mi pareva di aver lasciato gli ultimi eroi!

 

         Black-Dick

  

LA TRIBUNA

27 agosto 1907

 

 

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