Gino Montefinale:
Raccolta di articoli di storia, di radio, di mare

 

 NOTTI GENOVESI


      

Notti genovesi del Risorgimento: scarse di luci, vuote di traffico e piene di mistero: non ancora imbiancate a giorno dallo sfarzo della illuminazione elettrica: solo il gas ha fatto la sua timida apparizione nelle arterie principali; nei vicoli, nelle salite arrampicate sulle alture le sole lampade fioche delle Madonnine, accese dalla pietà dei parrocchiani  ad indicare la via ai rari passanti…

        A noi che – dopo tanto sciupio di luce artificiale – le esigenze della guerra moderna obbligano a vivere nella quasi oscurità, riesce più facile immaginare la Genova notturna di quei tempi. La vedo popolata di tutte le sue grandi ombre tutelari, in una serata luminosa come questa, in cui la brezza di tramontana che scende insinuante dal Peralto ha sgombrato il cielo da ogni residuo di vapori, e le stelle splendono a miriadi, e la luna-  come un immenso globo di magnesio librato sulla Superba – ne svela all’occhio esperto anche i minimi particolari.

        Battono lente le ore ad uno dei campanili della città ducale e gli altri le ripetono a breve intervallo, scolte vigili nella notte silenziosa. Dieci rintocchi: è l’ora in cui il grande nottivago esce guardingo da una delle sue case ospitali, col cappello abbassato sui grandi occhi espressivi, talvolta con i connotati cambiati, per far perdere le tracce ai segugi sguinzagliati sul suo cammino.

        Per uno strano destino della sorte, la vita è l’azione del Pensatore si svolgono preferibilmente nelle ombre, care forse, negli anni giovanili, alla sua mentalità di sognatore e di idealista, ma che non mancano di pesargli quando glielo impone la persecuzione poliziesca.

        Ad ospitarlo, nelle sue fugaci apparizioni a Genova, sono delle popolane, la Carlotta Benettini e la Caterina Gasparino, appartenenti all’esile schiera delle pietose soccorritrici dei profughi e confortatrici dei Grandi della prima giornata, «che nel gelido fosco mattino avevano mosso verso l’aurora della libertà, attraverso squallidi campi irti di forche». Ed altri autentici popolani ne proteggono i passi durante i misteriosi convegni con la Giunta Segreta d’Azione: i fedelissimi, fino al fanatismo, capi operai Casareto, Casaccia, Profumo, il fabbro Pellegrini, il falegname Abbondanza, qualche autentico caravana e quell’Antonio Mosto, capo di un’impresa di facchinaggio nel Porto, onesto fino all’inconcepibile – difatti morì povero – che avrà tanta parte nella vittoria di Calatafimi, come comandante dell’eroico drappello dei carabinieri genovesi.

        Donde aveva tratto Mazzini questo suo amore sviscerato per il popolo, per quello minuto, lavoratore, economo, famigliare, raccolto a cui per indole e per tendenze si sentiva particolarmente vicino?

«Io v’amai fin da’ miei primi anni. Gl’istinti di mia madre mi insegnarono a cercare nel mio simile l’uomo, non il ricco ed il potente: e l’inconscia semplice virtù paterna m’avvezzò ad ammirare, più che la boriosa atteggiata mezza sapienza, la tacita inavvertita virtù di sacrificio ch’è spesso in voi. Più dopo, dalla nostra storia raccolsi come la vera vita d’Italia sia vita di popolo… e allora, trent’anni addietro, mi diedi a voi».

Parole scritte nel 1860 per gli operai italiani, e che s’inquadrano soltanto oggi nel comandamento del Duce «Andare verso il popolo», dopo lustri di politica sociale deviata od incerta.

Sulla petrea dei tetti di ardesia, lucenti dal riflesso lunare e coronati di terrazze ancora fiorite, si elevano nella penombra, a dominare il suggestivo panorama, le costruzioni più recenti della città vecchia: dall’alto del mio osservatorio scopro le sagome a chiaroscuro dei campanili millenari di Santa Maria di Castello e delle Grazie far capolino dietro l’acrocoro denso di case e di storia del Sarzano, colla torre degli Embriaci, unica superstite delle trentatré consorelle prospettanti l’entrata del porto nel lontano Medio Evo; il quadrato campanile a strisce bianche e nere di San Lorenzo, l’ottagonale San Donato, Sant’Agostino, con i suoi mosaici di maiolica che danno riflessi di cristallo, la sagoma bonacciona della torre a bifore delle Vigne, la torre moresca di Santo Stefano, la torre del Popolo, sorgente dai tetti di lavagna del Palazzo Ducale, e San Giorgio e la Maddalena e la cupola con i campanili di Carignano, e lontana, al di là dello specchio chiaro del porto, la Torre a candelabro della Lanterna, in disparte, tetragona all’ingiuria degli uomini e del tempo, solenne nella sua funzione di scolta secolare e simbolica.

Che colpo d’occhio stupendo! Quale insieme disordinato di cose naturali ed umane, di vecchio e di nuovo, di ricchezze e di miserie; aspetti di severità e di forza, ma anche di pietà e di devozione, dominati su questo tutto, chiuso come in uno scrigno fra il mare e le montagne brulle, quasi inaccessibili dall’interno. Quant’arte in questo arco privilegiato di bellezze! E soprattutto quanta storia in questo ammasso di pietre, geloso patrimonio domestico, che la venerazione dei genovesi tramanda, miracolosamente intatto, al rispetto delle municipalità future…

Distrutta dai barbari la Genoa romana, risorse sul colle di Sarzano la Janua medioevale, con lo stupendo castello delle Tre Torri e la prima cerchia di mura, ora frantumata dal tempo, su cui gli Embriaci, i Doria, gli Spinola arrestarono col loro valore le orde dei Saraceni reduci trionfanti, ebbri di bottino e di sangue dalla distruzione di Luni, gioiello romano di tesori e di marmi sulle rive di Apuania.

Come una macchia d’olio, dal colle del Sarzano Janua estende il suo perimetro sulle vigne e sui poggi circostanti. Quando la vide il Petrarca, la città fortificata si estendeva già all’Acquasola ed a Carignano, e per Castelletto si ricongiungeva a San Tommaso, abbracciando Vallechiara e Montegalletto. Il poeta l’aveva definita «Città imperiosa e donna del mare».

Era meno caotica, nel suo stile gotico e romanico, di quella che contemplo stasera, addormentata sotto il bacio del chiarore lunare; la marea delle case del popolo non aveva ancora sommerso le fastose dimore dei ricchi, fino a rendere quasi irriconoscibili le une dalle altre.

Trasportata nei tempi, la prima convivenza dei ricchi in mezzo al popolo era stata la forza della Repubblica, preservandola più delle altre dalle degenerazioni oligarchiche. Tipica l’origine, in mezzo al popolo, della classe dirigente genovese, formatasi esclusivamente per valore guerriero e per abilità nei traffici, plasmata nello spirito corporativo delle Compagnie, unioni civili e militari di uomini liberi che, per solenne giuramento, si garantivano scambievolmente la sicurezza della persona, gli averi e la libertà di navigazione: gli Embriaci, divenuti per i Giustiniani, erano stati i primi nella zona di Castello; gli Zaccaria, ammiragli fra i più illustri del Medio Evo, combattenti e commercianti in Terrasanta, avevano le case sulla sponda destra del Rivotorbido, insieme ai Cormandino, anche questi grandi trafficanti d’oriente, cui si deve la chiesa delle Vigne del 1100: i Salvaghi o Salvago, si erano stabiliti presso San Donato, i Cattaneo della Volta ed i Vento presso il Banco di San Giorgio, i Fieschi a Carignano, i Balzani, gli Scotto ed i Sauli lungo il Canneto, i Di Negro a Banchi e San Lorenzo, gli Squarciafichi nel quartiere degli Artieri intorno alla Scurreria. I Grimaldi, ammiragli di Francia, mercanti, magistrati, signori di Monaco, dominatori del commercio col nord d’Europa, avevano eretto le loro case presso il tempio di San Luca e gli Spinola, fondatori delle famose Masserie delle Fiandre, si erano stabiliti nella contrada di Luccoli; i Doria attorno a San Matteo – Abbazia degli Ammiragli; i Boccanegra, anch’essi ammiragli di Castiglia e dominatori della Finanza, intorno alla Maddalena; i PIccamiglio a Soziglia, i Da Passano a Domoculta, i Pallavicino, i Calvi, i Falamonica nei pressi di San Pancrazio; i Lomellini e gli Adornii nella regione tra Fossatello e Sant’Agnese.

Nata da un regime di popolo, tipicamente italiano, la città vecchia, che si disegna, nei suoi infiniti chiaroscuri, lungo l’arco lucente del porto, aveva raggiunto il suo massimo splendore architettonico intorno all’epoca colombiana. Così l’aveva vista il giovane artiere della Corporazione del Lana, il cui spirito grandeggia ancora a Porta Soprana, inquieto per la ventata d’ingratitudine che giunge da oltre il suo Mare Oceano…

Al diradarsi delle tenebre medioevali – che pur videro il fulgore della Dominante – la città fortezza si trasforma in città mercato: i nobili emigrano definitivamente dai vicoli, la confusione architettonica si fa più grande.

Soffia a tempesta dal Rodano il vento allucinante di Libertà: si abbattono le statue e si scalpellano gli stemmi gentilizi a cui Genova deve la sua grandezza. Un mondo è caduto. Quasi non ne restano che dei frammenti profanati dall’impiego utilitario: bei portali in marmo centinato, od in nerissime ardesie trasudanti di salino, logge degli affari con pavimenti d’ardesia trapunti la piccole quadrelle di marmo, e colonne doriche sorgenti su basi scolpite di trofei guerreschi. Vi si trattenevano i mercanti a trattar scambi, a combinar Compagne, spedizioni di merci e costruzioni di navi; da qui si accedeva alle doviziose magioni dei piani superiori, per scale, in parte ancora intatte, dalle belle volte a vela e crociere sostenute da colonne di marmo e adorne di artistiche balaustre. Sulle facciate avanzi di capitelli e di ogive, fra squarci delle caratteristiche e ben significative fasce nere e bianche affioranti sul grigio livellatore dell’intonaco.

Un mondo è finito. Un mondo nuovo fermenta fra le rovine e poi si afferma nello stesso dedalo dei vicoli pieni dei distintivi della potenza, della gloria, della ricchezza, fra le nobili case abbandonate al piccolo commercio, ai tavernieri od ai rudi lavoratori del porto.

È l’alba del Risorgimento. Nella casa paterna di piazza San Bernardo, Goffredo Mameli compone l’«Inno dei Guerrieri» cui Michele Novaro dà note immortali, e da via Lomellini dapprima, eppoi dalla casa, ora scomparsa, di «piazza dietro ai Forni» sul pendio di Castelletto, Mazzini inizia i suoi pellegrinaggi notturni, protetto dalle ombre discrete dei sentieri millenari…

 

G.M.F.

 

CORRIERE MERCANTILE, 1941


 

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