Gino Montefinale:
Raccolta di articoli di storia, di radio, di mare

 

HO CONOSCIUTO UGO FERRANDI, IL CAPO BIANCO DEL BENADIR


Ricordi dell’Africa eroica degli esploratori e dei pionieri

 

Gazzetta del Lunedì, 14 dicembre 1959

 

 

        Della mia permanenza nella Somalia Italiana, negli anni fra il 1910 e la prima guerra mondiale, quando il «paese degli aromi» e dei caratteristici bender costieri – mediocri ancoraggi flagellati dai monsoni (Ras Hafun, Obbia, Itala, Mogadiscio, eccetera) – era più noto agli italiani sotto il nome di Benadir, mi rimane tuttora impressa la personalità di alcuni dei pionieri della nostra colonizzazione in quella terra, aperta al soffio della civiltà dalle ardite esplorazioni dal Bottègo negli anni 1892-1896, fino a Luigi di Savoia, Duca degli Abruzzi, che per primo discese l’Uebi Scebeli dalle sorgenti all’Oceano Indiano.

Sopra tutti, mi è caro il ricordo di Ugo Ferrandi, novarese (vi era nato nel 1852 e vi morì nel 1928), strana figura di esploratore e di colonizzatore che, anche nell’aspetto dava l’impressione di stare fra il Livingstone – quale ci è stato descritto dallo Stanley nell’ormai famoso racconto dell’avventuroso ritrovamento – ed il Garibaldi, col quale aveva comune l’origine marinara.

Il nostro incontro era avvenuto per l’appunto a Bardera, sul Medio Giuba, località visitata dal novarese nel 1891-92 e poi nel 1893 in due successivi viaggi di esplorazione del paese (il basso Scebeli e il basso Giuba), muovendo dalla località costiera di Brava.

Il cavaja (padre, padrone, capo in lingua somala), così lo chiamavano per antonomasia gli indigeni, l’europeo più conosciuto e più venerato, in quel tempo, da un capo all’altro della Somalia tutta, sedeva, quando mi presentai a lui, all’ombra benefica di un baobab colossale ed intorno lo circondava una schiera di venerabili capi cabila (o capi tribù) accoccolati a semicerchio, insieme a vari uomini del seguito armati di lancia e del pittoresco pugnale (billau) somalo, venuti chissà da quali lontananze, per sottoporre al gran capo bianco questioni che, a giudicare dai loro interminabili discorsi, dovevano essere di grande importanza (certo questioni di abbeveratoi contesi, di sconfinamenti o razzie degli amhara abissini, sempre all’ordine del giorno, e via dicendo). La notizia del passaggio del cavaja si propagava con gran rapidità nell’immenso territorio dei Rahanuin (grande quasi quanto la valle Padana) nel quale per anni si era svolta la sua benefica azione, come unico bianco al governo di quelle popolazioni nomadi e primitive. E lo si obbligava a quei gran raduni (o calam, parlamenti della boscaglia) che, ad assistervi, all’udire i saggi consigli che il Ferrandi impartiva, in perfetta lingua somala, facevano ricorrere al pensiero a epoche lontanissime di patriarchi e «re pastori» agli albori dell’umanità…

In una colonia dove la Marina italiana aveva pressoché esaurita l’importante funzione di riconoscimento e di pacificazione iniziata nel 1885 dalla nave Agostino Barbarigo e proseguita nel corso degli anni da numerose navi (Staffetta, Rapido, Volturno, Dogali, Piemonte, ecc) i cui comandanti ed ufficiali hanno lasciato nome imperituro – alcuni per sacrificio delle lor vite – nella storia del vecchio Benadir, Ugo Ferrandi non sapeva nascondere la sua felicità nell’incontrarsi, in quelle terre sperdute, ed allora poco note, con membri della gran famiglia, alla quale teneva sempre ad appartenere, nonostante il grado di Commissario Regionale raggiunto nell’organico delle Colonie.

Era stato infatti capitano marittimo ed aveva navigato sui velieri; ma raramente parlava del suo passato, sul quale non si amava interrogarlo. Era per tutti il pioniere del Benadir, mite, direi quasi evangelico, della stessa tempra, se non proprio della stessa statura, di quel cardinale Massaia che aveva propugnato la fede cattolica e l’italianità in Abissinia.

Si diceva che fosse approdato naufrago sulle madrepore di Brava, quando il paese apparteneva ancora ai sultani dello Zanzibar, e, solo bianco nel territorio, se ne fosse innamorato, facendosi subito apprezzare dalle miti e pacifiche popolazioni Tunni, così diverse dai bellicosi e fanatici Bimal della finitima riviera di Merca, presso i quali dovevano trovare la morte il tenente di vascello Maurizio Talmone della Staffetta nel 1893 e quattro anni dopo il cav.Trevis della Compagnia Filonardi, vittime ambedue del fanatismo mussulmano.

Nell’agosto 1891, mentre la regione di Brava era minacciata dall’invasione di bellicose tribù somale del Nord ed un valoroso capo dei Tunni, certo Nassib, ex schiavo ed amico di Ferrandi lottava strenuamente per arrestarla,, questi, assai coraggiosamente intraprendeva una ricognizione nell’interno del paese, spingendosi fino a Barderà, a sei o sette giornate di carovana dal mare, ritornandovi una seconda volta nel 1893.

A Brava giungeva poi il Bottègo nel 1895 e da qui iniziava la sua seconda spedizione alle sorgenti dei fiumi Giuba ed Omo, non trovando di meglio che aggregarvi Ugo Ferrandi. Così il 12 ottobre 1895 muoveva dalla costa verso l’interno, infido ed in parte misterioso, l’ultima delle grandi esplorazioni africane patrocinate, con gli auspici della Società Geografica Italiana, della quale era presidente, dal genovese Giacomo Doria, della illustre Casata omonima, geografo, naturalista, viaggiatore, pioniere della scienza e dell’idea coloniale in Italia.

Ma grandi nuvole nere si andavo gradualmente addensando sui monti lontani degli Arussi verso i quali la spedizione era diretta e lungo il turbolento confine abissino, in dipendenza degli avvenimenti bellici che stavano maturando nell’Eritrea. Com’era stato convenuto, Ugo Ferrandi fu lasciato a Lugh, sull’alto Giuba, per fondarvi una stazione commerciale e datogli un presidio di 43 ascari per difenderla, al caso, dalle minaccianti incursioni degli Amhara abissini, il Bottègo continuava per i laghi equatoriali, verso il lago Pagadi dove arrivò, primo europeo, e che battezzò lago Regina Margherita.

Esplorò poi la valle e il corso dell’Omo, fino al lago Rodolfo e di lì dirigeva al Nord verso la valle del Sobat, affluente del Nilo Bianco; ma sulla valle del’Uesseno, affluente del Sobat, veniva attaccato e massacrato da una tribù scioana il 7 marzo 1896. Poco prima uno dei componenti della spedizione, il Sacchi, che si era portato in esplorazione verso il Margherita, aveva trovato la stessa sorte. Erano i giorni fatali di Adua e la spedizione Bottègo ne aveva sofferto le ripercussioni, pur avendo pressoché esaurito il suo compito dal lato geografico.

Intanto a Lugh (distante 425 chilometri di strada carovaniera da Mogadiscio) le cose minacciavano di volgere al peggio anche per la stazione commerciale costituitavi e presidiata dal capitano Ferrandi. L’imperatore Menelik non aveva mai riconosciuto il protocollo anglo-italiano del 24 marzo 1891 delimitante le reciproche sfere di influenza nell’A.O. in forza del quale Lugh doveva far parte dei territori affidati al controllo italiano, e ringalluzzito dal suo successo militare, aveva cominciato ad avanzar pretese sull’importante nodo fluviale, nel quale gli abissini non erano mai penetrati, che per qualche occasionale razzia. Ferrandi, odorando il vento infido, vi si fortificò, ciò che valse a tener lontana per qualche tempo un’orda di 1500 guerrieri amhara che al comando del ras Uold Gabriel si appressava alla stazione e ne aveva ordinato con messaggeri lo sgombero. Ferrandi rifiutò e scaduto l’ultimatum, essi attaccarono. Non fu certo l’esigua forza di 43 ascari di cui disponeva il Novarese a respingere, con pieno successo – unica fortuna fra le tante sventure coloniali del 1896 – l’assalto accanito degli abissini svoltosi proprio il giorno di Natale di quell’anno nefasto, mentre la popolazione, in preda al panico, era propensa ad arrendersi; sibbene la saggezza con cui aveva costruito, nell’attesa, il fortino ed i trinceramenti che impedirono quella che, in altre condizioni, sarebbe stata un’assai facile vittoria. Menelik fu costretto a richiamare la sua truppa e nel seguito di pratiche diplomatiche a riconoscere il nostro diritto di mantenere a Lugh la stazione commerciale italiana, rispettata e garantita da ogni molestia o razzia. Vittoria soprattutto di prestigio e di acume garibaldino, quella di Ferrandi, che di Garibaldi possedeva la semplicità e la frugalità di vita, tanto da adattarsi, quando necessario, al regime di marcia ed allo stesso cibo degli indigeni!

Nella squallida conclusione delle nostre attività coloniali, il nome di Lugh-Ferrandi, che l’Italia riconoscente ha voluto dare al più importante nodo carovaniero dell’Alto Giuba, resterà insieme a tanti altri, un punto luminoso nell’opera di civilizzazione del Continente Nero intrapresa dagli Europei nel secolo scorso. Ugo Ferrandi, nel salvare Lugh alla Somalia, quando gli eventi sembravano favorevoli a farlo escludere per sempre, ha reso, oltre a tutto, un grande servigio alla nobile nazione somala che ora si appresta a divenire stato indipendente.

 

Gino Montefinale

 


 

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