Gino Montefinale:
Raccolta di articoli di storia, di radio, di mare

 

VECCHIA GENOVA


 

Genova, fra le grandi città, ex-capitali, delle quali s'adorna, come di fulgide gemme, lo scettro dell'Italia unita, è forse quella che, dal lato urbanistico, ha avuto la vita più difficile e più movimentata, in conseguenza soprattutto dello spazio assai ristretto, fra il mare c il monte, concesso al suo sviluppo, necessariamente intorno all'arco naturale del suo porto (da genua, rientranza,  sembra ormai accertato che derivi il tanto discusso toponimo). Le sue storiche pietre non hanno avuto mai pace, ora edificate in agglomerati di case, di mura e di torri difensive, ora messe a terra dalla furia barbarica, o dal piccone demolitore per far fronte ad impellenti necessità, e poi nuovamente riedificate. Generalizzando, si potrebbe applicare a località e quartieri di Genova il vecchio cattivo augurio in uso nel popolino a proposito dei selciati stradali: «Poscito quëtâ comme e lastre de Zena».

La storia era cominciata nella prima arce genovese, sorta, nessuno sa quando, sul sacro colle di Sarzano e di Castello, che Magone cartaginese distrusse nel 250 a. C, e che, per ordine del senato romano, il console Spurio Lucrezio aveva ricostruita, cingendola di mura, che un re longobardo, Rotari, abbatteva nel 743 d.C. Così lasciata, guerriera senza corazza, Genova soggiaceva al sacco terribile datole dai Fatimiti arabi nell'anno 935. Sembro la fine, c fu invece il segnale della riscossa: i genovesi ritrovarono se stessi, ricostruirono ed allargarono il giro delle mura e gli arabi, che dal covo di Frassineto in Provenza infierivano sulle due Riviere, non osarono più attaccare la città. Poi Genova passò al contrattacco e li scacciò dal Tirreno, dalle basi di Sardegna e di Corsica e, più lardi, da Almerìa e dalle Baleari. Infine, intorno all'anno 1000, il gran balzo delle galee genovesi in pieno Mediterraneo, con la I Crociata, ritornandone i genovesi con la fama di maestri di navigazione, fondatori di empori coloniali (i famosi fondachi), nemici invincibili degli arabi e soprattutto, dicono gli storici, con molto denaro.

Filate le scotte della nave genovese all' impoppata dell'espansione oltremarina, si perde la sua storia arcaica nelle scie evanescenti e ne comincia una nuova. All'interno, le sue tappe sono segnate dal progressivo estendersi delle cerchia di mura, che dal primo giro intorno al Castello dalle Tre Torri s'allargano a Sant'Andrea, a Banchi, a Porta Soprana e poi ancora a Castelletto e giù giù fino a San Tommaso, mentre a levante vanno a racchiudere Carignano e si affacciano alla piana del Bisagno da Porta

degli Archi, Porta Romana e Porta Pila. Interi bracci di mura e le alte torri che vi si raccordano sorgono e scompaiono, o sono altrove riedificati con le stesse pietre, e cosi gli agglomerati di case, alte, quasi cementate le une alle altre, con gli stretti «caruggi» che vi si aprono, dilagano in pittoresco disordine verso

il monte e verso il mare a formare gli storici sestieri, alcuni monumentali, tanto da destare l'ammirazione del Petrarca, altri più funzionali e dal tipico volto mercantile e marinaresco che non trovano similitudine in altra città marittima del Mediterraneo. Nell'insieme, un grandioso anfiteatro che aveva come platea il porto, e del quale una buona posizione ci è stata miracolosamente conservata, per fornire un quadro familiare e pittoresco a chi l'osserva da posizione preminente; sull'immensa distesa dei tetti di lavagna, intersecati da grandi terrazze fiorite, svettano campanili e vecchie torri e si stagliano contro il cielo San Lorenzo e le altre storiche basiliche, compendianti secoli di storia genovese. Qui Genova ha forgiato, con lunga, paziente tenacia il suo avvenire.

E' questa la Vecchia Genova, forse destinata a scomparire del tutto - poiché ha già cominciato a morire - di  fronte alla spinta sconcertante di un'altra Genova che ha rotto i vecchi argini, dilagando verso le due riviere e coprendo di nuovi quartieri le sue alture, e che preme inesorabile sui vecchi sestieri, destando giustificate apprensioni e resistenze nei suoi «nostalgici» ed aficionados. E' la Vecchia Genova, portata assai opportunamente alla ribalta dei suoi estimatori da una provvida ed accuratissima pubblicazione della «Levante» in occasione del 40° anniversario della sua fondazione; vi sono raccolte, con lusso e chiarezza di

riproduzione non comuni, come in un grande album di famiglia, le già sparse fotografie dei punti più caratteristici, o gangli vitali, di Genova scomparsa o che sta per scomparire: da quelle di piazza San Domenico, che era il cuore della vecchia città, a quelle di via Giulia, che sembrava premere contro le vecchie mura per aprire il passo alla città verso levante, tra gli orti e i giardini di oltre Bisagno: da quelle di Ponticello, a quelle delle calate del porto, ancòra nude di grue, quando il porto era così piccolo che la Lanterna raggiungeva con la sua ombra ogni punto dello specchio acqueo e dei moli (*).

La precede una significativa presentazione del cavaliere del lavoro Ing. Ernesto Fassio, che è stato l'animatore della raccolta, le cui didascalie sono sgorgate, vive e genuine, quali già risonanti in quei quartieri o sulle calate del porto, dalla penna smagliante di Carlo Otto Guglielmino, che già in altri lavori del genere ha colorito di poesia e di sana familiarità il volto inconfondibile della vecchia Genova.

Non osiamo entrare in altri dettagli su questa pubblicazione, che indubbiamente riuscirà gradita anche a quei marinai dai capelli bianchi che rivivranno nelle sue immagini la gioia dei sospirati e tanti ritorni dal mare alla Genova che non è più, temendo di guastare, col nostro stile disadorno, quadretti esposti con tanta maestria. E tuttavia, scrivendone in una rivista marinara, non possiamo trattenerci dal presentare al lettore aspetti ed immagini della Genova portuale del tempo che fu, quale si rispecchia nelle inimitabili illustrazioni che vi si riferiscono e nel magistrale commento del Guglielmino.

Lunga fila di velieri ormeggiati davanti alla Lanterna e sullo sfondo, le caserme di San Benigno che dominavano il porto dall'alto di quel costone roccioso che la tenacia dei genovesi, attraverso anni di dura fatica, doveva poi sgretolare e spianare, eliminando così un noioso diaframma con la zona di ponente. E, più in qua, la zona del carbone. Il minerale, scaricato a spalla dai velieri o dai primi piroscafi, veniva accatastato sulle calate o rovesciato su apposite chiatte rimorchiate sotto bordo della nave. I facchini addetti allo scarico lavoravano di solito a dorso nudo ed erano sempre neri della polvere di carbone, impastata al loro sudore. Ma il guadagno era buono. Gli scaricatori si erano organizzati in compagnia. Tutto appariva nero, in quel tratto di porto, e per un buon raggio d'intorno.

Porta Lanterna, costruita una prima volta nel 1632 e ricostruita nel 1827, rappresentava uno degli ingressi di ponente della città e ricordava, anche come linea, la Porta Pila, con in alto la statua di Maria Santissima, a significare, la dedizione di Genova alla grande Protettrice. Al di là Sampierdarena, ancora spiaggia, con la sua ventina di stabilimenti balneari allineati, dove confluivano, tra giugno e settembre, oltre che gli abitanti del luogo, quelli dei quartieri occidentali di Genova. Un mondo scomparso! Una condizione di cose e di vita inconcepibile per le generazioni della 2a metà di questo secolo...

Se Genova vecchia ha cominciato a morire dopo la prima guerra mondiale, e la seconda guerra l'ha, in parte, sconvolta, come afferma il Guglielmino, qualcosa di pittoresco e di suggestivo era stato intaccato, anche prima, nelle mura degli Zingari (chiamate così perché in questa località, di solito, si accampavano le carovane di essi, passanti per Genova) allorché fu tolta di mezzo l'antica chiesa di S. Tomaso (ricostruita a S. Ugo) che col suo massiccio campanile a bifore, troneggiante sul gruppo di case addossate agli spalti o sorgenti dalle scogliere, manteneva freschezza marina al paesaggio nelle vicinanze del severo palazzo del Principe. E ciò per dare un maggior respiro al porto dei passeggeri.

Sono scomparsi mura, scogliere e la poetica spiaggetta: al loro posto calate, linee ferroviarie e la prima, piccola stazione marittima sul ponte Federico Guglielmo, che allo scoppio della 1° guerra mondiale sarà ribattezzata Ponte dei Mille. Da qui sono partili a centinaia di migliaia i nostri emigranti. Molti di essi, mai più tornati in Italia, hanno conservato, quale immagine della Patria, il ricordo dell'ancor piccolo edificio che videro allontanarsi e sparire a poco a poco, mentre il «pacchetto» sul quale erano imbarcati stava avviandosi verso il mare aperto. I transatlantici di allora appartenevano quasi tutti, o alla «Navigazione Generale» (e portavano una fascia bianca sui fumaioli in nero) od a «La Veloce» con una stella nera sulle ciminiere gialle.

Nella vicina Piazza Acquaverde, la prima stazione ferroviaria si è fatta già largo in mezzo ad antichissimi monasteri, che il piccone va man mano abbattendo: ma sul declivio di Montegalletto sono rimasti in piedi (e lo sono tuttora) gli edifici dell'antico Collegio di Marina dove si formavano i cadetti della Marina Sarda. In una foto di prima del '90 vi si scorge ancora l'albero a pennoni che serviva per le esercitazioni degli allievi e si pensa al rigore spartano che regnava nell' istituto, quale ci è stato tramandato dalle memorie dell' indimenticabile Jack la Bolina. Ci par di vedere profilarsi ancora su quelle griselle, sotto

gli schiaffi gelidi della tramontana, le sagome giovanili del conte di Persano, di Alfredo Cappellini, di Faa di Bruno, Millelire, i due Albini, Arminjon, de Amezaga, Saint Bon, Canevaro ed ;altri fra i futuri fondatori della Marina da guerra dell'Italia unita…

Dal lato di levante è ancora armata la batteria della Cava. Vediamo un artigliere, vestito con la divisa di panno blu e il cheppì rigido, sorvegliare i cinque cannoni cui è affidata, insieme a quelli di S.Benigno, la difesa del porto, quando Genova era ancora piazzaforte marittima. E intanto al Molo Vecchio si stanno demolendo le vecchie mura per costruire i magazzini Generali. Resisterà la Porta del Molo: una porta bellissima per linea, e tutta di pietra finalese, che ha visto svolgersi tanta parte della vita antica del porto.

Milleottocentoottantacinque. Nonostante le affermazioni delle navi a vapore per passeggeri, il trasporto delle merci veniva ancora effettuato, in massima parte, da navi a vela che gremivano le acque  del porto, alcune ancorate alla fonda, altre allineate lungo i moli, unite alla terra da una plancetta: brigantini,

golette, navi goletta, brigantini a palo. Gli equipaggi erano pittoreschi e andavano dal gabbiere che si arrampicava «arriva» con l’agilità di una scimmia e dai mozzi ed altri uomini di coperta, al classico vecchio lupo di mare, con il viso bruciato dal sole e dal salino. L'attrezzatura del bastimento a vela, attraverso tipi diversi si era andata via via perfezionando: scafi più lunghi ed affinati, foderatura in rame della carena, aumento della superficie velica, e già i primi grossi barchi in ferro. Ma tale perfezione coincideva con l’inizio del declino della marina a vela: una marina che aveva al suo attivo tante pagine belle fascinose che non saranno dimenticate.

Per chi ne ricorda ancora qualche scorcio, o lo scopre oggi nelle fotografie, costituiva una visione quasi un po' romantica il vecchio porto quieto e tranquillo, senza rombo di motori né fischi di sirene; nel silenzio si sentivano, anche da lontano, i tocchi delle campane di bordo. Velieri, piccole foreste di antenne,

accanto alle calate e ai moli; altri velieri in mezzo al porto, in attesa, forse del vento. Il vento aveva allora, nel porto, un ruolo importante. Se soffiava forte dal largo i velieri entravano d'impeto, sulla cresta spumosa di un'onda, o fuggivano dal porto fra bianco accavallarsi di spume quando la tramontana scendeva a raffiche sferzanti dai monti. Se il vento era assente oziavano in avamporto o al largo, quasi affetti da un complesso di timidezza, o scivolavano entro l'emporio di soppiatto, a rimorchio.

Dice il Guglielmino nel presentarlo al lettore: «Non è volume, questo, da sfogliarsi in fretta: ogni immagine è un piccolo mondo a nel quale si deve entrare con amorosa comprensione; a indugiare con lo sguardo in quel mondo si scoprono particolari utili a mettere a fuoco ambienti scomparsi c costumi tramontati, e dai quali si sprigiona, spesso, un sottile profumo di poesia».

E' proprio così. Come dal Poggio, ora della Giovine Italia, l' immagine della scomparsa Chiesa di San Giacomo di Carignano, che sembra ancor li, alta sul mare a guardare e proteggere l'ingresso del Porto. La vegliavano alcuni cipressi gonfi di coccole e ronzanti, la sera, di passeri. Era una Chiesa romantica, cara ai marinai, molti dei quali vi avevano recato degli ex voto sotto forma di ingenui quadretti, dipinti in maniera primitiva, che rappresentavano terribili tempeste marine o scene di naufragi.

Non è il solo esempio a dar l'impressione, sfogliando religiosamente questo album di famiglia (quella dei genovesi e l'altra dei marinai), che talvolta nel rinnovare si è andati troppo lungi. Si possono aprire nuovi bacini al porto, dar maggiore spazio a calate ed a parchi ferroviari, aprire nuove arterie e piazze alla circolazione, operare i risanamenti e gli abbellimenti necessari e via dicendo, senza far getto completo di talune opere (chiese, porte e scorci di mura, vestigia storiche di qualche importanza, ecc.) che, se anche non racchiudono rilevante pregio artistico, sono per l'animo popolare ragione di unità e di attaccamento alla propria Terra. Ben fanno quei popoli, di noi più conservatori (ma senza una storia paragonabile alla nostra) che, anziché disperdere al vento le loro vestigia più significative, quando ciò è possibile le inquadrano sapientemente nel nuovo e nell'utilitario. Sia l'artistica pubblicazione della «Levante» altresì un monito a chi spetta, che nella Vecchia Genova non del tutto scomparsa vi è molto di caro ai genovesi, e bisognerà proceder cauti col piccone ed i bull-dozers.

 

Com.te GINO MONTEFINALE

 

La Marina Italiana, marzo ‘61

 


 

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