Gino Montefinale:
Raccolta di articoli di storia, di radio, di mare

 

UN EPISODIO POCO NOTO DELL'ULTIMO CONFLITTO MONDIALE


 

Gazzetta del Lunedì 5 febbraio 1962

  

Nei disgraziati eventi con i quali ebbe termine nel 1941 la nostra attività coloniale, toccò ad un ristretto, ma non trascurabile, contingente della Marina di finire in bellezza un opera iniziata sessant'anni prima e che fu pionieristica in molteplici campi.

Di quel valoroso contingente di ufficiali e marinai ai quali toccò il gravoso compito, nel II conflitto mondiale, di operare nel ristretto ed infuocato budello del Mar Rosso sono state rese note le gesta. Mi pare giusto riportare in luce due episodi, poco noti di questa eroica azione.

Meno fortunata della flottiglia di sommergibili di base a Massaua, che nell'imminenza della caduta di quest'ultima, accerchiata dalle truppe inglesi, era uscita audacemente dal vigilatissimo stretto di Bab-el-Mandeb e per il lungo e insidioso periplo dell'Africa aveva raggiunto l'Europa, la flottiglia dei cacciatorpediniere Pantera, Tigre, Manin, Sauro e Battisti era, per forza di cose, destinata irrimediabilmente al sacrificio. Ne era stato perciò predisposto l’autoaffondamento sull'opposta sponda, sbarcando gli equipaggi nell'Arabia Saudita.

Per brevità, ometterò le circostanze che portarono la disgraziata flottiglia a trovarsi, nelle prime ore del 3 aprile 1941, zigzagando in formazione sparsa in pieno Mar Rosso, sotto il fuoco micidiale di uno stormo di settanta aerei bombardieri della RAF contro i cacciatorpediniere diretti alla loro tomba designata, che sparavano ininterrottamente con tutte le armi decisi a vender cara la loro pelle.

Fu una delle battaglie più efferate combattute fra arma aerea ed arma navale: a causa di avarie, Manin e Sauro rimasti indietro, attirarono tutto il fuoco degli aerei, permettendo a Pantera e Tigre di dileguarsi verso i fondali madreporici di Gedda. Sul mezzogiorno - il «mezzogiorno di fuoco» proprio del Mar Rosso - dei primi non restavano che frammenti, galleggianti fra chiazze di nafta e di sangue, e due imbarcazioni stracariche di naufraghi doloranti.

Sono ambedue bucherellate dalle schegge, semiallagate e zeppe di naufraghi. Una è la motobarca del Manin; e l'altra una grossa lancia, la «IA 463» di un piroscafo, imbarcata precauzionalmente sulla stessa caccia a Massaua. Sulla prima vi è stato adagiato il comandante dell'unità scomparsa, Araldo Fadin: ha un ginocchio sfracellato ed una coscia traforata. In efficienza, la barca era per venti uomini: ora ne sosteneva sessanta, metà ammassati dentro, metà aggrappati ai bordi. All'altra imbarcazione, della quale ha preso il L'ammiraglio Fabio Gnetticomando il sottotenente di vascello Fabio Gnetti (foto a sinistra), manca mezzo metro di chiglia ed ha egualmente numerosi fori nel fasciame. Anche la lancia di Gnetti è costruita per 20-25 persone, ma ve ne sono state caricate 45, in gran parte ferite, alcune molto seriamente. Ambedue le imbarcazioni hanno a bordo un barile d'acqua dolce sui 25 litri e da cinque a sette scatole di gallette intrise d'acqua salata. Non vi sono in nessuna delle due strumenti nautici servibili e quando il tramonto scenderà rapidamente, come avviene al tropico, bisognerà dirigersi con le stelle.

La notte fra il 3 ed il 4 aprile piena è di incubi e di allucinazioni da «zattera della Medusa» su ambedue; sulla «IA 463» muoiono un sottocapo ed uno degli ascari fuochisti e sulla barca del comandante, quando il nuovo giorno disperde gli incubi della notte i naufraghi si guardano e si contano sono rimasti in cinquantatré...

La barca del comandante Fadin fu portata alla deriva verso la costa sudanese, pur essendosi aiutata con i due remi di bordo ed una parvenza di vela improvvisata con pochi stracci e il moncone di un terzo remo. Quando fu raccolta da una cannoniera britannica, i superstiti erano 44 e tre di essi davano segni di pazzia: il comandante, sebbene con febbre altissima, fino a quel momento aveva mantenuto il controllo della situazione. Era l'alba del 6 aprile.

Più lunga fu la tragica peregrinazione per la «IA 463», caratterizzata da un vero e proprio tentativo di navigazione, per raggiungere la costa saudita. Vento e mare - questo talvolta assai grosso - costantemente contrari, o calme piatte, fecero quasi subito rinunziare all'uso della vela, cosicché le poche persone valide, compresi i tre ufficiali, dovettero alternarsi in continuazione alla voga sulle tre coppie di remi, per vincere una corrente che tendeva a portare la lancia a sud e ad allontanarla dalla costa araba, raggiunta finalmente il 10 aprile dopo sette giornate interminabili di sofferenze, dovute in particolare alla tortura del caldo e della sete. Per giunta, avendo l'imbarcazione atterrato in spiaggia inospitale e desertica, molti chilometri al sud di Gedda, all'avventura in Mar Rosso altre se ne aggiunsero, prima che lo spossato equipaggio raggiungesse la caserma saudita della suddetta città, dove dal 4 aprile erano alloggiati quelli dei tre cacciatorpediniere sfuggiti al cruento e spietato epilogo della Marina italiana in Africa Orientale.

 

Gino Montefinale


Il libro del 1979 di Fabio Gnetti, che racconta per intero la vicenda

 

 

 

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