Gino Montefinale:
Raccolta di articoli di storia, di radio, di mare

 

DA BORDO DELLA FLAMINGO VEDEMMO IL CORAGGIO ITALIANO


Leale testimonianza di un ufficiale britannico

 

La Gazzetta del lunedì, luglio 1966

 

 

La solidarietà, che affratella in unica grande famiglia coloro che sull'acqua salsa fanno mestiere di vita, viene ovviamente ad affievolirsi - se non proprio a spezzarsi - quando i politici li spingono a lotte micidiali che, nelle marine moderne, agenti in coordinazione con i mezzi aerei, assumono talvolta forme disumane. Ma, cessati i conflitti, la solidarietà e la fratellanza tornano a manifestarsi, spesso con atti di cavalleresco riconoscimento del valore, fortunato o no, dell'avversario di ieri.

Ne abbiamo ora conferma nelle dichiarazioni fatte ad un quotidiano di Napoli da un ex ufficiale della Marina britannica, il signor Steve Mac Crain, che il 3 aprile 1943 assisté, da bordo della corvetta «Flamingo», allo scontro aeronavale che segnò la fine delle nostre operazioni in Mar Rosso e - possiamo dire - dell'azione cinquantennale della Marina italiana in Africa Orientale, non sempre volta a scopi prettamente militari, ma anche civilizzatrice, nei campi idrografico, del segnalamento costiero, radio telegrafico, ecc.

Dello scontro suddetto trattammo, tempo addietro, su questa stessa Gazzetta, soffermandoci in particolare sull'avventuroso viaggio di una lancia carica di naufraghi che aveva percorso oltre 130 miglia di navigazione a remi, con l'acqua quasi alla «falchetta», con feriti a bordo (alcuni morti in alto mare) con pochissimi viveri e praticamente senza acqua potabile, giunta peraltro in salvo sulla costa saudiana dopo sette giorni di peregrinazione, scortata da uno stuolo di feroci pescicani...

Ora il Mac Crain, nell'intervista accennata, ha fornito particolari poco noti sulle circostanze dell'azione bellica che ebbe per epilogo i fortunosi salvataggi di cui furono protagonisti principali il comandante Araldo Fadin (attuale vicepresidente dell’UNUCI) ed il santerenzino sottotenente Fabio Gnetti (oggi capitano di vascello), il primo comandante del C.T. «Manin», che ferito quasi a morte assunse il comando di una motolancia con 60 naufraghi a bordo, conducendone a salvamento (raccolti dopo tre giorni dalla stessa Flamingo) una buona metà; il secondo che fu l'abile pilota della lancia a remi. Altri naufraghi dispersi su zattere alla deriva erano stati raccolti dalle navi inglesi.

«They were the kamikaze of the royal italian Navy» , ha detto il Mac Crain a proposito dei marinai italiani che avevano preso parte a quel combattimento, volendo paragonare la loro azione disperata al sublime sacrificio degli aviatori giapponesi che in Pacifico, quando tutto sembra perduto per la Marina del Sole Levante, s’erano immolati, tuffandosi con il carico di bombe sulle tolde delle portaerei americane, per causare ad esse ancora qualche danno col solo materiale bellico disponibile.

Ma come si giunse a quello scontro? Massaua era ormai accerchiata dalle truppe inglesi scendenti dagli altipiani e prevedendosene di lì a poco la caduta, una nostra flottiglia di sommergibili che vi aveva base era filata audacemente «sotto il naso degli inglesi di Perim» (sono parole del Mac Crain) e compiendo il periplo dell'Africa s’era diretta a Bordeaux (dove giunse incolume). Più audace ancora, la nave ausiliaria di superficie «Eritrea», per lo stesso vigilatissimo stretto di Perim era uscita in Oceano Indiano. La comandava Iannuzzi - poi ammiraglio e compianto direttore dell'Istituto Idrografico di Genova dove la famiglia risiede tuttora - che riusciva a portarla in salvo in Giappone.

Era più critica, per la scarsa autonomia, la situazione dei sei cacciatorpediniere «Manin», «Sauro» e «Battisti» (formanti la III squadriglia), «Leone», «Tigre» e «Pantera» della V squadriglia, chiusi ormai nella trappola del Mar Rosso e sui quali stava per chiudersi il cerchio di fuoco delle forze avanzanti nel torrido bassopiano e delle due divisioni navali di base rispettivamente ad Aden e porto Sudan.

«L'ufficio Informazioni inglese possedeva il «dossier» completo dei comandanti di quelle squadriglie. Li sapeva uomini ostinati e coraggiosi. Di una cosa eravamo certi: essi non si sarebbero arresi e non si sarebbero umiliati affondandosi nel porto». Così ne ha detto il Mac Crain nell'intervista.

E continua: «i nostri aerei sorvolavano continuamente la zona. Gli italiani aerei non ne avevano da quelle parti. Sin dalla notte prima, quando le truppe inglesi avevano accerchiato la città, noi sapevamo che quei temerari sarebbero usciti: ma verso dove? Poi venne la verità: quei pazzi, invece di correre via, avevano messo la prua contro la nostra base di Porto Sudan. Era tipico il gesto: tipico della Marina reale italiana conosciuta nel mondo per le sue beffe nei porti nemici».

Descritta la marcia della squadriglia disperata nella notte, con ammirazione verso il personale di macchina che aveva forzato macchine e caldaie ai limiti della sicurezza (il vetusto «Battisti», che non ce l'aveva fatta, fu diretto ad autoaffondarsi sulla costa araba), il Crain dice che, spuntata all'alba, il gruppo dei caccia italiani si trovò tagliata la strada dalla divisione navale sulla quale l'intervistato faceva servizio. «Eravamo troppi e sul cielo settanta aerei da bombardamento ed aerosiluranti, fra i quali alcuni “Vincent Vichers„ - denuncianti la presenza non troppo lontana di una portaerei - indussero gli italiani ad invertire la rotta, obiettivo l’Arabia. Le nostre navi si limitarono ad assistere da lontano, lasciando fare ai bombardieri».

Invero non era stata una «beffa» ma un'azione predisposta, per utilizzare - sia pure in extremis - un materiale umano e di armi ancora capace di produrre danni al nemico. La III squadriglia avrebbe dovuto attaccare, di sorpresa, a Porto Sudan e la V a Suez, dove si stavano concentrando trasporti di truppe per il fronte cirenaico. Era previsto l'appoggio dell'aviazione germanica di base in Egeo, che all'ultimo momento mancò e, quel che è peggio, un grave incidente al C.T. «Leone», quando già la V squadriglia era in rotta nei sinuosi canali madreporici delle isole Dahalac, costrinse a rinunciare al colpo su Suez. Quando fu chiesto all'equipaggio del cacciatorpediniere, ormai condannato, che poteva scegliere fra l'alternativa di rinforzare le difese terrestri di Massaua e quella di trasbordare sull'unica squadriglia (del sacrificio) formatasi dall'unione delle due, l'equipaggio aveva optato unanimemente per quest'ultima. Episodio che, già in partenza, aggiunse molto alla valutazione fatta dal Crain sul comportamento dei nostri marinai nell'ultima loro azione di guerra in Mar Rosso.

«I cacciatorpediniere sputavano fuoco con tutte le armi di bordo, ma le loro macchine non ce la facevano più, era evidente. Così, diventavano obiettivi sempre meno mobili per gli aerei. Questi si alternavano ogni quarto d'ora, mentre le armi italiane avrebbero dovuto fondersi dalla logorio. Il «Manin» era diventato l'obiettivo più facile. Una bomba dopo l'altra lo squarciavano e quello continuava a navigare ed a sparare. Il «Sauro» era ancora indenne e poi, dopo una violenta esplosione, non lo si vide più. Era colato a picco in meno di un minuto. Tutti gli aerei adesso picchiavano sul «Manin» che ne abbatteva cinque; ma dopo molte ore era ormai fermo, ferito a morte. Una sola mitragliera sparava ancora. Uno spettacolo che non si può dimenticare: il «Manin» affondò lentamente, il mare era pieno di italiani feriti. Quando all'alba di tre giorni dopo una barca piena di sangue, di nafta e di acqua salmastra (quella del comandante Fadin) arrivò sotto la nostra nave, il nostro comandante Wilcox ordinò lo «scopritevi!» a tutto l'equipaggio, di fronte a quegli uomini che si erano battuti da leoni».

 

Gino Montefinale

 


 

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