Gino Montefinale:
Raccolta di articoli di storia, di radio, di mare

 

CON LA NAVE IDROGRAFICA "STAFFETTA" NEI MARI AFRICANI


 

 

Alla Marina del mio tempo mancarono le grandi occasioni dei combattimenti in alto mare contro un nemico tradizionalmente battagliero ed il supremo, copioso olocausto, dei suoi uomini migliori, che non furono risparmiati a quella attuale che ne raccolse l'eredità della tradizione, tenendone alto il prestigio nelle dure vicende dell'ultimo conflitto. Ma non le si potrebbe negare Il merito di aver operato, con tenace e silenzioso lavoro dei suoi capi e gregari, il passaggio definitivo dalla Marina dell'Ottocento, che risentiva ancora dell'onorevole tradizione velica, sui cui sistemi si era formata (dalla fusione delle tre marine pre-risorgimentali) alla Marina meccanica e scientifica moderna. Non tutto è stato detto su quest'opera costruttiva e di rinnovamento, che ebbe il suo acme subito dopo gli insegnamenti, ed il moniti, della guerra russo-giapponese del 1904-1905 e si estese, oltreché alla riforma ed alla riorganizzazione dei Corpi, alla razionale utilizzazione delle armi e dei nuovi mezzi e metodi di guerra.

In quel nuovo clima di attività e di esercitazioni, volte esclusivamente alla preparazione bellica, che aveva i suoi autorevoli sostenitori nei Bettolo, Mirabello, Ronca, Cagni, Millo, Revel e tutta una élite di altri valenti ufficiali della «jeune école» , impersonata nella luminosa figura del principe Luigi di Savoia, capitava spesso a noi giovani ufficiali di vascello d'esser trasferiti, senza possibilità di appello, dall'ambiente della nave da battaglia, impregnato di rigida disciplina e dell'invadente meccanicismo, a quello più blando e familiare delle navi addette ai servizi ausiliari. Di queste, ancora classificate con le vecchie designazioni di «cannoniere» o di «avvisi», sul limitare della prima guerra mondiale ve n’era un buon numero, i tipi Volturno, Archimede, Galileo, Barbarigo, Colonna, Curtatone, Staffetta, Veniero, ecc.ecc., assai utilmente impiegate come navi stazionarie nel levante e nelle colonie, in campagne idrografiche ed in missioni varie, senza contare le indimenticabili navi scuola alla vela, per cadetti e mozzi, che rispondevano ai nomi di Flavio gioia, Amerigo Vespucci, Miseno, Palinuro, Chioggia.

Capitò quindi anche a me, sottotenente di vascello anziano, cui non erano mancati gli allettamenti verso una specializzazione di grande avvenire, di trovarmi designato a far parte, nel giugno 1910, dello stato maggiore d'armamento della nave idrografica Staffetta.

L'avviso Staffetta era stato varato nel 1876 dagli scali del cantiere Ansaldo di Sestri Ponente ed aveva fatto la sua prima comparsa nelle acque dell'Oceano Indiano, a Zanzibar, nel 1888, dopo un viaggio di circumnavigazione dell'Africa, al comando del C.F. Volpe. Era stato firmato un trattato commerciale con quel sultano, contenente clausole relative all’assunzione del protettorato sulla costa somala da parte dell’Italia, purtroppo reso esecutivo mercè le azioni delle nostre navi stazionarie ed il sacrificio di vite preziose, quali S.T.V. Carlo Zavagli a Warscheik nel 1890, il T.V. Maurizio Talmone a Merca nel 1893 ed a Lafolè nel 1896 i comandanti Mongiardini della Volturno e Maffei della Staffetta, unitamente a vari loro uifficiali, tutti ricordati a lettere d'oro nella nostra storia coloniale. Le prime sei o sette campagne della Staffetta in Africa Orientale erano state necessariamente di sola natura politica e solo nel 1898 la nave aveva iniziato il regolare rilievo delle coste, con lavori di scandaglio e topografici ad Alula, Obbia, Itala, Brava e Merca, ripresi poi nel 1903 in Mar Rosso ed Oceano Indiano e svolti su più larga scala nella campagna del 1906. Di questo lavoro, condotto attraverso le note difficoltà di quei mari, resta tuttora traccia, insieme ai nomi dei comandanti che lo diressero, nelle carte e nei portolani dell'Istituto Idrografico di Genova.

Non mi propongo, in questo articolo, di descrivere l'analogo lavoro svolto nella campagna in Mar Rosso e dell'Oceano Indiano del 1910-1911 alla quale presi parte; ma di rievocare soltanto qualche ricordo ed impressione. Si tratta, purtroppo, di ricordi non lieti, in quanto associati alla nostra perduta attività coloniale, non però inutile, quantunque approdata nel nulla, nemmeno nei riguardi dell'opera, altamente meritoria, svolta dalla Marina del tempo, in quella prima affermazione colonizzatrice dell'Italia unita.

[...] una comunità coloniale di tipo specificamente nostrano, e quindi diversa da quelle convenzionali dei vicini possedimenti britannici.

Intanto la ferrovia Massaua-Asmara, una delle opere più ardite di ingegneria del Continente Nero, aveva raggiunto Nefasit e dopo l'ultimo balzo, il più difficile per il dislivello da superare, si parlava di prolungarla verso Cheren ed oltre... A Massaua il tenente di vascello Bernardo Micchiardi, aveva attivato il primo allacciamento diretto con l'Italia, usando materiali dello stesso tipo di quelli che erano serviti a Guglielmo Marconi nei suoi arditi collegamenti radio fra Europa ed il Nord America.

Ultimati i lavori di rilievo e di scandaglio nei canali di Massaua, nel marzo 1911 la Staffetta doppiava il temuto Capo Guardafui, non ancora provveduto di alcun segnalamento, dirigendo su Mogadiscio, per completare l’idrografia dell'approdo e con un preciso programma di lavori relativi alla costa del Benadir e della Somalia Settentrionale, da svolgersi per buona parte nel periodo di calma relativa compreso fra il soffiare dei due monsoni.

Nel Mar Rosso il lavoro di scandagliatore affidato a noi ufficiali subalterni era relativamente facile. Le barche a vapore, all’uopo attrezzate ed equipaggiate, erano condotte dalla Staffetta sulle zone di mare da scandagliare fin dal primo mattino; la nave dirigeva, a sua volta, per il campo del suo lavoro, consistente nello scandaglio d'alto mare o nel trasporto nelle località designate di spedizioni destinate a determinazioni geodetiche. Sulle imbarcazioni il lavoro di scandaglio, su linee parallele perpendicolari alla costa, durava ininterrottamente dall'alba al tramonto, quando la nave, dalla lontano orizzonte, o da qualcuna delle tante isole dei Canali, veniva a recuperarci. Giornate laboriose, sotto l'implacabile sole del Tropico, in mare insidiati da frotte di pescicani, che evoluivano minacciosi intorno ai fragili scafi di quelle arcaiche caffettiere; si rientrava a bordo mezzi ubriachi di luce e di calore, gli occhi arrossati per le centinaia di rilevamenti di punti cospicui e segnali terrestri presi nelle fastidiose condizioni del tremolio atmosferico, proprio dell’osservazione in tali regioni.

In Oceano Indiano la messa in mare delle barche a vapore non era quasi mai possibile, per l'abituale ondulazione ed il pericolo dei «frangenti» anche nelle cosiddette stagioni delle calme (i due tagambili annuali). Di necessità, occorreva, allora attrezzare le caratteristiche piroghe somale, condotte da un abilissimo nakuda e da una ventina di robusti e rumorosi vogatori, tratti dalle tribù degli ex schiavi suhaeli. È facile immaginare in quale proporzione aumentassero in tal caso le difficoltà degli ufficiali scandagliatori destinati a passare intere giornate fra il vociare di quegli strani armamenti d'altri tempi!

Confrontata con la provinciale Colonia Eritrea, la Somalia Italiana nel 1911 dava un senso di maggiore respiro, in parte favorito dai più spaziosi orizzonti che si aprivano al suo divenire e dalla tradizione di ardimenti dei suoi primi esploratori: il Bottego, Ugo Ferrandi, Citerni, Pàntano, Robecchi-Bricchetti, Vannutelli ed altri dei quali mi sfugge il nome. All'arrivo della Staffetta n’era governatore il senatore Giacomo de Martino, uomo di ampie vedute e di tradizionale buon senso napoletano. A lui si deve la pacificazione completa della colonia e la estensione dei suoi confini fino a limiti stabiliti nei trattati. Facilitò assai la sua opera l’impianto di una rete completa di stazioni radiotelegrafiche, lungo la costa e nell'interno del Benadir, da parte della Regia Marina, la prima del genere sorta in territorio africano, sulla quale vorremmo riferire in altra occasione.

La piccola e gloriosa Staffetta, la bianca veterana dell'Africa Orientale, richiamate di lì a poco in Patria per gli avvenimenti della guerra italo-turca, vi ritornava un'ultima volta a guerra finita al comando del C.F. Domenico Marchini. Fu questa l'ultima campagna idrografica svolta dal vecchio avviso nei mari delle nostre ex colonie in Mar Rosso ed Oceano Indiano. Vi si erano succeduti dodici comandanti e circa due centinaia di ufficiali.

Radiate progressivamente nel corso della guerra 1914-18, sparivano dalla scena dei mari, insieme alla Staffetta, le altre 20 navi, all'incirca dello stesso tipo, che dall'acquisto della baia di Assab (1870) al primo conflitto mondiale erano state le principali protagoniste dell'opera di civiltà compiuta dall'Italia, nuovamente costituita a Nazione, nelle terre dell'Est Africa, rimaste chiuse alla benefica comunione dei popoli.

Cadrebbe in grave errore chi credesse comprendere l’immane sforzo compiuto dagli Italiani del tempo che vi presero parte, fra le manifestazioni del cosiddetto colonialismo.

 

Gino Montefinale

 


 

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