LA VECCHIA MARINA CONSERVAVA L'ORGOGLIO DI NAVIGARE A VELA
Scriveva nel 1928 Augusto Vittorio Vecchi (l’indimenticabile Jack la
Bolina): «E’ forse giunto il momento
di sostituire alla poesia della vela la poesia della macchina».
Niun dubbio che l’abitudine al meccanismo abbia
fatto impallidire nelle attuali generazioni marinare l’amore per la vela,
che fu base di tradizione delle principale Marine moderne e segnatamente
della nostra. Peraltro essa è stata forse la più restia ad abolirla come
mezzo educativo ed insuperabile ginnastica del fisico e del morale - fra
tutte quelle esercitate «au
grand air» - per infondere ardimento, sveltezza e senso marino in chi
abbraccia la professione dell’acqua salsa.
Per quanto la Marina Italiana non vanti più, per forza di cose e d’eventi,
la sua bella squadra veliera d’istruzione di un tempo - costituita da
Flavio Gioia, Amerigo Vespucci,
Curtatone, Miseno, Palinuro e Chioggia - essa stenta a rinunciare del
tutto al suo nuovo Vespucci ed ai pochi brigantini delle scuole Nocchieri,
come mezzi di allenamento marinaresco degli allievi di vascello e graduati.
Di più, continua a dare sviluppo ed importanza allo Sport Velico, con una
separata organizzazione che va accumulando un numero cospicuo di Titoli e
Trofei che furno, se non erro, una trentina nel
1958, primo quello conseguito dall’Artica II nella Regata Internazionale
Atlantica Brest-Las Palmas. «La mente
alle macchine, il cuore alla vela» potrebbe tuttora definirsi la divisa
dei nostri marinai, consapevoli della necessità di essere veramente tali sul
liquido elemento, comunque sia foggiato lo strumento di difesa ad essi
affidato.
Me era sempre poesia quella che infondeva in noi, giovani cadetti,
l’intensiva istruzione velica di un tempo? Spesso era il contrario, dato che
la direttiva dominante era quella di mettere il novizio (o «pivetto»
come si chiamava ne gergo di bordo) di fronte alle situazioni più prosaiche,
per scoraggiarsi e far ritirare in tempo coloro che non avevano attitudini
al mestiere. A ciò si aggiungeva, naturalmente, l’incostanza di carattere
del mare, con le sue inattese, e talvolta lunghe, sfuriate ed il conseguente
disagio fisico, non sempre ben sopportato dai più induriti lupi di mare.
Serbo tuttora il ricordo di alcune di tali sfuriate che per noi allievi si
traducevano, oltre a tutto, in «posti di manovra» prolungati in coperta o
sui pennoni, sotto gli schiaffi delle raffiche, della pioggia o delle vele,
brevi riposi «a murata» nell’umidiccio dei ponti, pasti rimediati alla
meglio e, più che tutto, rinuncia al sonno, il maggiore fra i sacrifici da
chiedersi alla gioventù…
Il 6 ottobre del 1900 la divisione Flavio Gioia, Amerigo Vespucci e
Curtatone, sotto l’insegna del genovese contrammiraglio Giovanni
Bettòlo, era rimasta in calma di vento sotto
l’isola di Pico delle Azzorre, nel canale posto fra essa e l’isola di San
Giorgio, dominato dal vulcano spento che si eleva maestoso sul mare per
un’altezza di 2.400 metri. Una calma subdola, a barometro in costante
discesa, mentre l’onda lunga dell’oceano sembrava gradualmente accentuarsi
in direzione mezzogiorno-libeccio.
L’ammiraglio, col suo buon fiuto ligure, aveva già segnalato di ridurre la
velatura nei quartieri alti e successivamente di «scrosciare» (mettere in
coperta) velacci e controvelacci; ma la tempesta era giunta quasi
improvvisa, con raffiche da 60 nodi, accompagnate da rovesci di pioggia e
grandine, mettendoci nell’impossibilità di serrare le poche vele rimaste
bordate al vento. Un cicloncino in piena regola, di quelli soliti ad
abbattersi nella stagione sulle Azzorre: ne avevamo visti gli effetti su
quattro grossi barchi pressoché «disalberati» da precedente meteora
equinoziale, che avevamo lasciati nel porto di Ponta
Delgada, nell’isola di S.Miguel, dove
eravamo nuovamente diretti, per prendervi la posta. Ma ciò fu impossibile,
stante la forza e la direzione del mare e del vento.
Serrate con grandi sforzi le vele, in parte lacerate, quando l’andatura lo
permise, l’ammiraglio, dopo dodici ore passate «alla cappa» decideva di
poggiare con tutta la divisione a Punta Portinha,
una baia deserta, fra coste dirupate sul tipo di quelle delle nostre Cinque
Terre, che per trovarsi sulla costa Nord dell’isola di
S.Miguel presentavano alquanto riparo al vento dominante, ma non al
mare, che vi permaneva fortissimo.
Sostenemmo il ciclone all’ancora, in 40 metri di fondo roccioso, rollando
per tre giorni spaventosamente. Ricordo che sulla Vespucci, dove io mi
trovavo, furono numerose le rotture, le contusioni, le cadute e le
ammaccature; ma, quel che è peggio, la Vespucci vi lasciò due ancore,
rimanendo con quella sola «di speranza».
Gino Montefinale
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