Al mio paese che allora si
chiamava Bagni di Casciana (oggi Casciana Terme), la festa patronale
cade il quindici di agosto di ogni anno. L’Assunta in cielo è la
titolare della chiesa arcipretura del Paese e il quindici di agosto è,
in gergo, la festa dell’Assunta.
Il quattordici di agosto di ogni anno, al mio paese, cominciavano
e cominciano i festeggiamenti con l’allestimento della fiera
dell’Assunta. Una serie di banchi, prevalentemente dedicati ai
giocattoli ed ai dolciumi (dominano i brigidini di Lamporecchio), si
distendevano un tempo sotto i “platani” di Piazza, oggi sulla Piazza
Mazzini o su quella delle “corriere”. Quando la vita era più semplice e
meno dispersiva, la fiera dell’Assunta era una grande festa per tutti ed
in particolare per i ragazzi. Quel giorno, ai ragazzi, i genitori, i
nonni, gli zii, “davano la fiera” (una mancia particolare, extra).
I festeggiamenti raggiungevano il loro culmine nel pranzo del quindici
agosto che solitamente voleva riuniti, intorno ad una stessa, grande
tavola, tutti i membri di una stessa famiglia che a Casciana accorrevano
da ogni luogo, vicini o lontani che fossero. Quel giorno, si diceva, in
ogni casa cascianese “ il pollo bolle in pentola”.
Sono passati tanti anni dal giorno in cui la corriera del Ricciardi &
Carpita mi portò da Casciana a Pontedera e da lì, il treno, mi portò a
Milano e alla sua Fiera.
Milano mi ha trattenuto per lunghi anni, sembrava non volesse più
lasciarmi andare. Milano si fa amare e si affeziona a coloro che di essa
sanno cogliere lo spirito austero e dinamico.
L’andata con gli esclusivi, fatiscenti, mezzi d’epoca ancora
disponibili. Il ritorno con gli strumenti che il progresso ha reso
popolari: le autostrade, l’automobile.
Tra l’andata ed il ritorno, la lunga operosa sosta nella grande città
del nostro nord. Nella città forse più città di ogni altra che abbiamo
in questa nostra Italia.
Ho deciso di scrivere ancora. Mi sono nuovamente immerso nei ricordi,
ho sollecitato la residua materia grigia che mi rimane, per riesumare
ricordi di persone, ambienti e iniziative che, credetemi, non pensavo
proprio di poter rivivere.....scrivendo.
Ho rivissuto.....scrivendo, circa quarantanni della mia vita. Gli anni
più importanti, quelli che dicono siano “corredati” di tutti i mezzi che
natura e volontà forniscono per crescere in età ed in......sapienza.
Anch’io faccio parte della grande schiera degli emigrati che nei lontani
anni cinquanta lasciarono la propria terra per intraprendere attività
lavorativa fuori dalle mura rassicuranti e care del proprio paese.
Questo mio scritto è la narrazione della vita che mi vide protagonista
milanese di un lavoro unico ed entusiasmante quale in quei tempi
postbellici riusciva ad essere quello fieristico (mi auguro che lo sia
ancora). E’ anche però e, questo lo reputo significativo, intimo
desiderio di esprimere a chiare lettere il ricordo, con il loro nome e
cognome e - ove possibile - con le attività svolte, di tutti coloro che,
paesani come me, furono costretti a lasciare la loro terra spesso,
troppo spesso incapace di fornire adeguato sostentamento al loro futuro.
Come è ben conosciuto, molti cascianesi se ne andarono e se ne sono
di recente andati anche per libera scelta, alla ricerca di qualche cosa
di nuovo che li traesse fuori da situazioni precarie, deludenti, spesso
anonime, senza speranza, senza spessore; altrettanti però furono
costretti ad andare perché il proprio paese non era in grado di fornire
loro adeguato sostentamento; altri perché nella politica economica
intrapresa dai nuovi reggitori della cosa pubblica non intravedevano
indirizzi che si delineassero adeguati alle potenziali capacità
che intimamente sentivano di possedere, ma che niente e nessuno
stimolava per farle emergere; altri perché capirono in tempo, con lucida
preveggenza che “nessuno è profeta in patria”.
La fine della seconda guerra mondiale, con la volontà di rinascita che
manifestò, illuse anche i cascianesi che questo luogo benedetto da Dio,
a due passi dal mare, a mezzo.... metro dalle maggiori città d’arte
della Toscana, con un’acqua termale benefica esaltata da luminari
nazionali e stranieri, con una campagna dolce, riposante, pittorica,
potesse espandersi, riaffermarsi, assumere caratteristiche e dimensioni
cittadine tali da mettere i suoi figli in grado di produrre
sufficiente “pane” per sopravvivere dignitosamente.
Questa illusione sopravvisse per un po’ di tempo. L’euforia della
ripresa postbellica assalì un po’ tutti e molte famiglie, con sacrifici
economici notevoli, fecero intraprendere ai propri figli studi
qualificati o superiori, convinti di poterli così preparare
adeguatamente all’imminente futuro che già faceva intravedere necessità
di specializzazione e di cultura appropriate.
Chi negli anni cinquanta però si avvicinava o aveva superato la
“trentina” e non aveva nella famiglia o nei parenti più prossimi
attività in proprio che gli potessero assicurare un lavoro sicuro anche
se non di gradimento, non poté certo attendere più di quel tanto e
cominciò a guardarsi intorno. Guardò prima lanciando un’occhiata nei
dintorni più prossimi poi, rivolgendosi ai padrini politici che già
proliferavano copiosi, quindi rispondendo alle offerte di lavoro che
anche “La Nazione” con il “Corriere della Sera” cominciavano a
pubblicare nel numero della domenica.
A circa la metà degli anni cinquanta anche i disoccupati cascianesi
cominciarono però a perdere la pazienza.
Le Terme, fonte prima di possibile occupazione, erano ancora lì intatte,
pur se rabberciate in qualche maniera, per dare cure ai coraggiosi primi
ritorni della clientela più affezionata. Gli Alberghi e le Pensioni
anziché aumentare di numero, diminuivano. La clientela non appariva più
di quel livello particolare che normalmente al suo passare porta
ricchezza. Sembrava, sono mie impressioni d’epoca, che ci si fosse
convinti di poter vivere di rendita. Di quella rendita favolosa che i
nostri padri avevano accumulato nei tempi d’oro del termalismo di élite.
Andammo quindi via, con il groppo in gola, con tanta, tanta nostalgia
nel cuore, un po’ risentiti verso la nostra terra che sembrava
respingerci (non era la terra che ci respingeva). Andammo delusi e
sconsolati.
Ma anche forti e decisi a dimostrare a noi stessi prima che a chiunque
altro che saremmo stati capaci di creare dal nulla, senza nulla, un
nostro nuovo mondo, una nostra nuova famiglia, un nostro buono e
sufficiente pane quotidiano.
ANDATA E RITORNO è il divenire di una generazione di cascianesi che ha
inutilmente sperato, ha fortemente voluto ed ha creduto in se stessa con
coraggio. Una generazione che a quei tempi è andata via e poi, con
gioia, appena ha potuto è ritornata alla “Piazza”. Di questo gruppo però
desidero che faccia parte anche quel numero di cascianesi che sono
andati ma che ad oggi non mostrano di essere tornati o di voler tornare.
Anche loro sono dei nostri e sono qui con noi, sento che ci sono ed
hanno un cuore più grande, forse più gonfio di ricordi e di nostalgie
che non possono o non vogliono manifestare. Che siano i migliori?
Il racconto della mia vita milanese, occupa una parte preminente dello
spazio di questo volume. Tenete conto che scrivendo di me, pur se
inconsapevolmente, ritengo di aver scritto il vissuto di tanti altri. La
vita di un emigrato, in fondo in fondo, non si differenzia nella
sostanza da quella di un altro emigrato. Tutti si sono sentiti soli, dei
numeri. Tutti hanno desiderato risentire l’odore della loro terra. Tutti
hanno cercato di ricostruire lontano un nido simile a quello
abbandonato. Molti hanno sofferto, aiutati con slancio fraterno dai
compaesani trovati per caso in quel luogo dove pensavano essere soli.
Molti hanno avuto fortuna, altri sfortuna. Qualcuno è cresciuto
emergendo dalla massa, altri sono rimasti piccoli ma onesti e sono
riusciti con onestà a far crescere i figli.
Alla città - Milano - che mi ha ricevuto e accettato per lunghissimo
tempo, debbo riconoscenza. Verso di lei conservo amore.
Mi ha fatto crescere, mi ha permesso liberamente, senza sollecitare
o accettare intrallazzi di sorta, di salire ad uno ad uno tutti i
gradini di una difficile carriera di lavoro, apprezzando e valutando
l’impegno, la dedizione, la professionalità. Mi ha consentito di lottare
con le mie uniche forze. Mi ha insegnato a vivere in un ambiente non
certo prediletto dalla natura. Mi ha detto: lavora, il lavoro c’è,
afferralo e tienlo stretto, non lo mollare mai, cercalo, crealo, tieni
duro, mantieni la fronte alta, non tremare mai. Chi lavora seriamente ed
onestamente non può e deve tremare mai.
Non me ne vogliate quindi se questo mio scritto, dedicato ufficialmente
alla mia cara moglie Annamaria, lo dedico sommessamente anche alla mia
ormai lontana città adottiva, a Milano e alla sua grande Fiera.
Milàn l’è òn grand Milàn cari amici che mi
leggete. E’ l’America italiana, è la terra che ha dato speranza e vigore
e dignità al lavoro serio ed onesto di migliaia e migliaia di persone
avvilite e disperate.
E’ la città della nebbia che......si vede e si.......sente.
E’ la città che ha da sempre suonato lo........squillo della riscossa e
del riscatto.
Da Milano, anche in questi bui giorni di grande disorientamento,
aspettiamo fiduciosi il segno della riscossa, non della secessione. Ho
lasciato lassù del mio perché contribuisca alla rinascita. Da quel mio
apprenderò la buona attesa novella. Verrà presto, aleggia
sul.......Resegone (la montagna che domina Lecco e la pianura lombarda),
vede già la Madonìna.
Da lassù, la nostra speranza.
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